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Alla fine della scuola

Pubblicato su “la Vita Cattolica” nr. 23/2023

Chissà se anche alla “fine della scuola” accade quello che si promette a chi trova la “fine dell’arcobaleno”? Una pentola colma di monete d’oro! Cioè la soddisfazione di un lavoro ben fatto, la percezione di avere imparato e di poter contare su bei ricordi e su più solide competenze? Oppure, come mi è capitato troppo spesso in queste ultime settimane, si percepisce tanta stanchezza, senso di frustrazione, voglia di liberarsene in fretta di questa scuola, di uscire dalle aule, dagli edifici, dai cortili… E di tornare a respirare il mondo!

Non so se il “non se ne può più” – e lo dico per primo a me stesso – sia davvero il giudizio migliore per marcare la fine di un anno scolastico. Certo, la leggerezza degli ultimi giorni ci sta. I neuroni che si rilassano e gli ombelichi che tornano a fare capolino dalle magliette non devono spaventarci. Ma da educatore ho anche la necessità di interrogarmi sul perché – al netto dell’anagrafe che incombe – ogni anno che passa, tra maggio e giugno veda attorno a me sempre più abbattimento e voglia di andarsene negli sguardi di studenti e docenti.

Una risposta ce l’ho, anzi due. Ma non ci vorrei costruire sopra un ragionamento e tantomeno un dibattito. Mi limito ad evidenziarli.

Primo. Con il fatto di essere inseriti ormai irreversibilmente dentro meccanismi di connessione comunicativa che funzionano 24 ore su 24, le professioni – anche quella dello studente medio e superiore – sono diventate sempre più energivore. L’obbligo di rispondere alle mail, di essere aggiornati sulla cronaca del mondo, l’imperativo di non mollare mai la concentrazione, di inviare mille messaggi al giorno, di non perdersi nulla di quello che ci accade attorno, consumando i polpastrelli per vedere cento video fabbricati da chissà-chi, le incombenze burocratiche, relazionali, i compiti, i progetti etc…. hanno trasformato il mestiere dello studente e dell’insegnante in un’attività che assorbe una gran quantità di energie in più rispetto anche a solo qualche anno fa. L’essere “sul pezzo” – sempre e comunque – ci ha inseriti in una sfida prestazionale continua. A cui i nostri fisici e le nostre menti non sono sempre abituati. Ecco la stanchezza.

Secondo. Recenti fatti di cronaca provenienti dal mondo della scuola (e anche qui: fa più rumore un albero che cade di una foresta che cresce!) hanno riportato l’attenzione dei media sulla sempre più marcata perdita di riconoscibilità sociale dell’insegnante. Le famiglie faticano a ritenere i docenti figure credibili con le quali relazionarsi; mal sopportano i giudizi sui loro figli quando non sono in linea con le proprie aspettative; più che costruire con essi alleanze educative, preferiscono non considerarli neanche degli educatori, dei professionisti… Il mestiere di insegnante non è più socialmente ambito e si sta rendendo irriconoscibile. Oggetto di una trasformazione indotta anche da certe politiche scellerate, che hanno puntato più sulla gestione quantitativa del sistema dell’istruzione che sulla valorizzazione degli attori primi del cambiamento o sul riconoscimento della funzione socio-culturale della scuola. Ecco perciò la frustrazione (degli insegnanti), ogni anno sempre più incancrenita. Che si riflette anche sulla qualità dell’insegnamento. E dunque sulla preparazione complessiva degli studenti.

Un messaggio in chiusura. A quanti si apprestano ad affrontare gli esami conclusivi dei vari cicli (dalla “maturità” in giù). Gli esami sono momenti di passaggio: hanno un po’ la stessa funzione dei ponti. Quelli che gli ingegneri progettano e le maestranze costruiscono. Ma che ai ragazzi spetta solo – come ad ogni persona saggia – di attraversare. Non saranno mai la fine del mondo. Anzi, saranno piuttosto l’inizio di un mondo nuovo, tutto da pensare e da inventare. Adesso potrà far ridere anche solo l’idea, ma è vero che dall’esperienza di avvicinamento all’esame, con tutte le sue ansie, i ripensamenti, i rimorsi e le paure c’è solo da imparare.

Auguri, allora. Anzi no, scusate, un po’ di scaramanzia in questi casi non guasta mai: in bocca al lupo!

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