di
Roberto Pensa
L’editoriale del direttore de “la Vita Cattolica” nel numero del 12 ottobre 2016: Chiariamo subito una cosa: nel dare un giudizio sulla firma della «Carta di Udine» a difesa delle Regioni speciali, siglata venerdì 7 ottobre da Friuli-Venezia Giulia, Sardegna e le Province autonome di Trento e di Bolzano, vogliamo subito eliminare due opinioni estreme. Non hanno ragione i critici che la qualificano come carta straccia, la foglia di fico per coprire la vergogna di un comizio del Pd a favore del «sì» per le riforme costituzionali pagato con i soldi della Regione, quindi dei contribuenti. Dal punto di vista giuridico non crea impegni e diritti per nessuno, ma il comune intento di 4 enti a Statuto speciale, «benedetto» in qualche modo dalla presenza del ministro degli Affari regionali, Enrico Costa, un valore politico ce l’ha. Detto questo, non possiamo nemmeno sottoscrivere l’enfasi con cui la presiedente Debora Serracchiani ha ricoperto l’evento: «Questa riforma rafforza in maniera importante le Regioni e le province autonome». E ancora: «Per la prima volta nella riforma si parla di un intesa che pone i sottoscrittori, Governo e Regioni, sullo stesso piano, a trattare delle materie di competenza dell’uno e delle altre».
Chiariamo subito una cosa: nel dare un giudizio sulla firma della «Carta di Udine» a difesa delle Regioni speciali, siglata venerdì 7 ottobre da Friuli-Venezia Giulia, Sardegna e le Province autonome di Trento e di Bolzano, vogliamo subito eliminare due opinioni estreme. Non hanno ragione i critici che la qualificano come carta straccia, la foglia di fico per coprire la vergogna di un comizio del Pd a favore del «sì» per le riforme costituzionali pagato con i soldi della Regione, quindi dei contribuenti. Dal punto di vista giuridico non crea impegni e diritti per nessuno, ma il comune intento di 4 enti a Statuto speciale, «benedetto» in qualche modo dalla presenza del ministro degli Affari regionali, Enrico Costa, un valore politico ce l’ha. Detto questo, non possiamo nemmeno sottoscrivere l’enfasi con cui la presiedente Debora Serracchiani ha ricoperto l’evento: «Questa riforma rafforza in maniera importante le Regioni e le province autonome». E ancora: «Per la prima volta nella riforma si parla di un intesa che pone i sottoscrittori, Governo e Regioni, sullo stesso piano, a trattare delle materie di competenza dell’uno e delle altre».
Nel testo della riforma costituzionale su cui saremo chiamati ad esprimerci il 4 dicembre, c’è scritto ben altro, purtroppo. È vero, c’è una «clausola di salvaguardia» delle attuali autonomie speciali: la riforma costituzionale non si applica alle Regioni a statuto speciale e alle Province autonome «fino alla revisione dei rispettivi statuti sulla base di intese con le medesime Regioni e Province autonome».
Il problema è che, una volta raggiunta l’intesa, su base paritaria, ad approvarla dovrà essere il Parlamento, e in particolare quel Senato delle autonomie in cui saranno maggioranza schiacciante i rappresentanti delle Regioni Ordinarie, non teneri rispetto ai maggiori poteri delle Speciali, vissuti come privilegi. Ogni senatore potrà proporre emendamenti all’intesa, che la maggioranza potrà approvare a suo piacimento.
Lo dice il nuovo art. 117, lo stesso nel quale troviamo impresso il principio della supremazia statale: «Su proposta del Governo, la legge dello Stato può intervenire in materie non riservate alla legislazione esclusiva (regionale, Ndr) quando lo richieda la tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica, ovvero la tutela dell’interesse nazionale». Dopo l’intesa, se ne ricorrono i presupposti, anche la specialità dovrà inchinarsi a questo principio formulato in modo amplissimo.
Infine il terzo punto debole lo troviamo all’articolo 119: l’autonomia finanziaria delle Regioni deve rispettare «quanto disposto dalla legge dello Stato ai fini del coordinamento della finanza pubblica». Questo vuol dire che non assisteremo più a patti tipo Tondo-Tremonti e Serracchiani-Padoan: il governo, sulla compartecipazione delle Regioni speciali al gettito di tasse e tributi, può decidere da solo.
Quanto sia importante quest’ultimo punto, che ai profani potrebbe apparire un tecnicismo, lo rivela un’analisi dell’ex consigliere regionale Giorgio Cavallo. Sulla base dei rapporti della Corte dei conti, egli ha stimato in 1.198 milioni di euro la quota di bilancio sottratta dall’inizio della crisi fino al 2015 dallo Stato alla Regione Friuli-Venezia Giulia attraverso i «patti» fiscali siglati col governo centrale. Questo avrebbe provocato una contrazione del Pil regionale di 2,4 miliardi, pari a un calo del 6,6%, vale a dire una contrazione del reddito medio pro capite da 30 mila a 27 mila euro. I cittadini del Friuli-V.G. hanno quindi pagato, per il risanamento della finanza pubblica nazionale, il 5% del conto totale pagato dal Paese, pur rappresentando solo il 2% della popolazione. È chiaro che in tal modo il governo centrale può svuotare «dal di dentro» qualsiasi autonomia speciale, facendo leva sulla finanza, ancor più se la Costituzione gli dà il potere di farlo autonomamente senza neanche bisogno di una intesa formale.
Serracchiani, gli altri governatori firmatari della Carta di Udine e il ministro Costa quindi sono degli spudorati bugiardi? Diciamo che la loro posizione trova un senso alla luce di quello che Bettino Craxi avrebbe chiamato l’«ottimismo della volontà». Il governo, attraverso il ministro giura che agirà nel rapporto con le Regioni in base ad un principio di leale collaborazione, Regioni e Province autonome sono fiduciose di ottenere delle intese vantaggiose con il governo. La debolezza di questi discorsi, pur volendo dare fiducia a Renzi e al suo ministro, sta nel fatto che si basano tutti su una congiuntura politica: governo di centrosinistra e governatori regionali di centrosinistra si dicono certi di poter instaurare una leale collaborazione. Ma una riforma costituzionale non può essere giudicata sulla base di una contingenza: i suoi meccanismi istituzionali devono poter funzionare per decenni, con tutti gli scenari politici. E, con l’equilibrio tripartitico del Parlamento italiano nessuno può azzardarsi a dire cosa succederà alle elezioni del 2018, tanto meno se la legge elettorale sarà un Italicum che assegna forti premi di maggioranza anche in caso di vittorie elettorali ottenute con minime percentuali di scarto.
E se a vincere fosse una maggioranza che vuole mettere in discussione le autonomie speciali sulla base di colpi di mano unilaterali? Per le speciali, valutare oggi la riforma costituzionale nell’esclusiva ottica dell’odierna contingenza politica, vissuta come favorevole (e, con l’accentramento in atto a tutti i livelli, anche la reale intenzione del governo Renzi rimane perlomeno dubbia) sarebbe come accettare di sedersi al tavolo da poker, mettendo in palio, tra una mano e l’altra, i propri poteri speciali. Un minimo principio di prudenza e l’evidenza di tutti i disastri che provoca l’azzardo dovrebbero consigliare di non sedersi nemmeno al tavolo con il biscazziere.
Roberto Pensa