Negli stadi del calcio il razzismo è spesso utilizzato per irritare e innervosire qualche giocatore della squadra avversaria: così, pensano gli imbecilli, rende di meno.
Come si manifesta il razzismo? Con mugugni corali, i classici “Buuuh”, con scritte offensive e talvolta con lancio di oggetti, non necessariamente contundenti, come le banane (che richiamano i luoghi di provenienza dei giocatori dalla pelle nera o scura).
Altri metodi di danneggiamento degli avversari, anche di pelle bianca, sono i raggi laser, gli insulti, e i cori di fischi ogni volta che un certo giocatore tocca palla: è quanto è successo a Lukaku a Milano qualche settimana fa, e siccome la sua pelle è nera non si capiva se i fischi fossero razzisti o semplicemente di tifo contrario.
Dopo aver riconosciuto che simili episodi non accadono in stadi degli altri sport, veniamo all’episodio di sabato scorso a Udine. Verso la metà del primo tempo Mike Maignan, portiere del Milan, stanco di subire insulti razzisti dalla curva alle sue spalle – non si trattava di cori, bensì di offese verbali, dirette soltanto a lui, per quanto se ne sa – richiama l’attenzione dell’arbitro, che fa diramare l’ammonimento: se gli insulti continuano, la partita sarà sospesa.
Dopo alcuni minuti, visto che nulla è cambiato, Maignan comunica all’arbitro che non se la sente di continuare e abbandona il campo, seguito per solidarietà dai compagni di squadra. È un gesto forte, dignitoso, degno di ogni elogio, in un mondo che bada soprattutto al denaro e per questo lo show must go on, anche se qualcuno o molti sugli spalti si comportano da criminali.
Poi la partita riprende, segna il Milan e l’Udinese pareggia: fine del primo tempo e cambio di campo. Maignan, se non altro, non può più sentire gli insulti, perché la curva sud è occupata dai suoi tifosi (ma non è detto, se cambierà squadra, che quegli stessi tifosi non cambino linguaggio nei suoi confronti, come è avvenuto per Lukaku a Milano).
L’Udinese, dopo la fine della partita, persa per 3 a 2, dichiara di essere una squadra multietnica per lunga tradizione, che il razzismo non le appartiene, come non appartiene alla sua tifoseria, abituata da molti decenni a sostenere una squadra composta da giocatori di varia nazionalità e provenienza. Amoroso, Asamoah, Appiah, Muntari, Zapata, Obodo, Armero, fino a Udogie, Success e altri che vestivano la maglia bianconera domenica scorsa, infatti, furono e sono nel cuore dei veri tifosi dell’Udinese, come Selmosson, Bredesen, Lindskog, Bierhof, Zico, Di Natale e altri. Purtroppo non sorprende l’episodio qui commentato, perché il razzismo è praticato in tutti gli stadi italiani, anche se non appare ogni settimana nelle cronache giornalistiche e in televisione. Maignan ha dunque il merito di aver costretto i mass-media a parlare francamente del fenomeno, ma non crediamo che il suo gesto meriti la cittadinanza onoraria di Udine annunciata dal Sindaco della Città: che cosa ha fatto il bravissimo Maignan a favore di Udine o del Friuli?
Del resto il Comune di Udine ha sempre lesinato in materia.
La cittadinanza onoraria fu attribuita, ad esempio, al tenente colonnello Harold Norman Bright, che aveva governato il Friuli nel primo difficile biennio dopo la seconda guerra mondiale, il 5 settembre 1947. Non crediamo che altri l’abbiano ottenuta dopo di lui.
Gianfranco Ellero
P.S. Il “razzismo da stadio” è soltanto una delle forme di razzismo, forse non la più pericolosa, che serpeggiano nella società italiana, dalla gente di strada, a quella per bene, su su fino al Parlamento e al Governo.