Un pezzo di tronco che, per mano di movimenti sapienti, attraverso sgobie e scalpelli, diventa un tomât. La maschera lignea della tradizione tarcentina – su cui i coniugi Luigi Ciceri e Andreina Nicoloso, appassionati cultori di tradizioni popolari e di letteratura, hanno effettuato numerosi studi – al centro del Carnevale che si viveva (e in parte ancora si vive) nel Tarcentino. Oggetto tuttora “vivo”, grazie all’azione dei “Mascarârs di Tarcint”, sodalizio nato nel 2009 (ma che ha radici ben più in là nel tempo) che con la sua trentina di associati continua a custodirne e tramandarne la tradizione. Vecchia di circa un secolo – così dicono le ricerche condotte sul campo –, offriva la sua massima espressione proprio nel periodo di Carnevale, quando le maschere venivano indossate per dar vita agli “strîts” (il nome lo si deve ai Ciceri e richiama la voce che esce dalla maschera, piuttosto stridula e paragonata dunque allo strillo di un uccello). Si tratta di scenette satiriche che venivano portate di frazione in frazione – in locali pubblici o di casa in casa –, prendendo di mira in genere gli amministratori locali e i personaggi noti. «Erano i coscritti, ovvero coloro che l’anno dopo avrebbero prestato il servizio militare, a realizzare maschere e satire – illustra Sergio Ganzitti, “mascarâr” tarcentino –; i tomâts, così voleva la tradizione, venivano realizzati appositamente ogni anno e poi bruciati, affinché nessuno riconoscesse l’autore e tanto meno colui che lo indossava, così da evitare qualsiasi rivalsa per la presa in giro subita».
L’articolo completo, a firma di Monika Pascolo, sul numero del 7 febbraio del settimanale “La Vita Cattolica”.