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L'editoriale

Mamma, oltre le parole

«Che cosa rappresenta la figura della mamma al giorno d’oggi?»: questo è il calibro della domanda che mi è stata rivolta.
Provo quindi a prendermi la responsabilità, non senza percepirne la complessità, di dare una forma mediante la parola a uno dei concetti più delicati e intimi che accompagna, a volte in modo silenzioso, a volte imponendosi sino a creare dibattito, la quotidianità del nostro presente.
A tale riguardo non ho la pretesa di rappresentarne definizioni universali, né tanto meno possiedo le competenze per poterlo fare. Mi chiedo, anzi, se ciò sia effettivamente possibile, appurato che ogni essere sente a suo modo. Sarebbe pertanto riduttivo, limitante, tutt’altro che istintivo il voler ingabbiare tale sentire in classificazioni standardizzate.
Perderemmo forse il senso.
Perderemmo forse la nostra umanità.
Il mio intento è quello di cercare di tradurre quei pensieri e quelle sensazioni che, se mi fermo, ascolto e osservo, nella mia mente si diramano come per diffusione esponenziale dalla parola “mamma”, in tutto lo spazio attiguo.
Io sono figlia, non ancora madre e chissà se mai lo sarò.
In questa indagine parto quindi dal punto di vista che mi permette di rendere tale analisi meno critica: quello di un essere che per 9 mesi è stato all’interno del corpo di un altro essere.
Ecco, penso che quel tempo sia sufficientemente lungo per creare un linguaggio che non si rifà alle facili decodifiche dell’utilizzo della parola, ma si struttura su quello che io definirei “intimo sentire”, ovvero tacite frequenze che non hanno bisogno di essere chiamate o meglio, che è impossibile chiamare. Sono messaggi che si sentono e basta, nella pancia per l’appunto.
«Che cosa rappresenta la figura della mamma al giorno d’oggi?»: questo è il calibro della domanda che mi è stata rivolta.
Provo quindi a prendermi la responsabilità, non senza percepirne la complessità, di dare una forma mediante la parola a uno dei concetti più delicati e intimi che accompagna, a volte in modo silenzioso, a volte imponendosi sino a creare dibattito, la quotidianità del nostro presente.
A tale riguardo non ho la pretesa di rappresentarne definizioni universali, né tanto meno possiedo le competenze per poterlo fare. Mi chiedo, anzi, se ciò sia effettivamente possibile, appurato che ogni essere sente a suo modo. Sarebbe pertanto riduttivo, limitante, tutt’altro che istintivo il voler ingabbiare tale sentire in classificazioni standardizzate.
Perderemmo forse il senso.
Perderemmo forse la nostra umanità.
Il mio intento è quello di cercare di tradurre quei pensieri e quelle sensazioni che, se mi fermo, ascolto e osservo, nella mia mente si diramano come per diffusione esponenziale dalla parola “mamma”, in tutto lo spazio attiguo.
Io sono figlia, non ancora madre e chissà se mai lo sarò.
In questa indagine parto quindi dal punto di vista che mi permette di rendere tale analisi meno critica: quello di un essere che per 9 mesi è stato all’interno del corpo di un altro essere.
Ecco, penso che quel tempo sia sufficientemente lungo per creare un linguaggio che non si rifà alle facili decodifiche dell’utilizzo della parola, ma si struttura su quello che io definirei “intimo sentire”, ovvero tacite frequenze che non hanno bisogno di essere chiamate o meglio, che è impossibile chiamare. Sono messaggi che si sentono e basta, nella pancia per l’appunto.
Maria Anna Deidda

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