Corre voce che il 90% dei dehors presenti in città e autorizzati fino al prossimo 31 dicembre, possano diventare permanenti.
La cosa mi sorprende perché avevo capito che l’installazione di molti di questi dehors (ma dobbiamo per forza continuare a chiamarli così?) era stata concessa nel periodo del covid al fine di agevolare la ripresa della vita sociale, avvilita dall’isolamento e dal lavoro a distanza; perché avevo capito che tali autorizzazioni avrebbero dovuto essere funzionali alla ripresa economica del commercio, fortemente penalizzato nel periodo del confinamento e, soprattutto, perché avevo capito che, passata la peste, saremmo tutti ritornati alla normalità e che anche i dehors, senz’altro utili nell’eccezionalità del momento, esaurita la loro funzione, sarebbero scomparsi dal paesaggio delle nostre città.
Preoccupato che così tanti dehors possano sopravvivere alla pandemia, manifesto la mia contrarietà per l’idea che ipotizza il prolungamento della loro vita e che, forse in maniera inconsapevole, incide pesantemente sull’architettura e sul significato urbano di molti spazi pubblici.
Per essere più preciso, dissento dal fatto che questi dehors (il sostantivo di origine francese definisce così gli spazi aggiunti all’esterno di bar e di ristoranti e caratterizzati da pedane di pavimentazione, tavolini, protezioni perimetrali e, sempre più spesso, anche da pergolati e coperture), occupino spazi pubblici originariamente destinati a marciapiedi, a piazze o a strade e, invadendo questi spazi, ne riducano la funzionalità. E sono contrario perché una strada vecchia di secoli, è pur sempre una strada e anche se, di questi tempi, potrebbe risultare blasfemo ipotizzare un utilizzo della sede stradale anche per il transito delle autovetture, credo che sarebbe urbanisticamente molto più corretto confermare la principale peculiarità dei percorsi urbani e, senza invadere la careggiata con improbabili tavolini, ombrelloni multicolori e recinti traballanti, mantenere libera la sede stradale per farci camminare pedoni, per far correre sciami di biciclette e, perché no, per far transitare qualche mezzo di trasporto pubblico. Ma sono contrario ai dehors anche perché deturpano il paesaggio urbano e perché la loro presenza ostacola la corretta visione delle facciate che fanno da sfondo agli spazi pubblici e che ormai si possono ritrovare solo sulle cartoline postali, ahimè sempre più rare. E questo limite si riscontra in maniera evidente sia in piazza Matteotti che in via Mercatovecchio, dove non esiste alcun luogo dal quale poter guardare nella loro interezza i porticati degli edifici che fungono da fondale e poter apprezzare la curiosa composizione delle arcate e la forma delle colonne, tutte tra loro diverse e tutte capaci di testimoniare quella antica parsimonia e quell’equilibrio sapiente che contraddistingue il dignitosissimo e compassato disegno della nostra città. E, ancora, sono contrario perché, in spregio alle nostre abitudini, i dehors, concentrati principalmente nei luoghi maggiormente significativi del centro della città, richiamano torme di ospiti i quali, in una sorta di omologata coralità, rinunciano a rifugiarsi nei locali interni delle osterie (ma ce ne sono ancora?) per mostrarsi e socializzare tra loro in una forma di compulsiva animazione che, ispirata da modelli lontani, produce solo una movida, banalmente rumorosa, esperantica e priva di personalità.
Poi, sono contrario ai dehors perché sono brutti. Perché chi li ha pensati si è dimenticato che un nuovo arredo in città deve prioritariamente tendere alla qualificazione estetica e funzionale dello spazio urbano e non limitarsi ad aumentare il numero dei tavolini da collocare nello spazio prospiciente una attività di ristoro; perché sembrano realizzati senza progetto e, per costruirli, vengono utilizzate sagome e materiali poco adatti all’ambiente ed alla tradizione del luogo; perché non potevamo nemmeno immaginare di vedere dehors protetti da teli di plastica semitrasparenti e, fin da subito, sudici e stropicciati, e perché trovo davvero inaccettabile che sulle strade e sulle piazze ormai dismesse si utilizzino fioraie con siepi asfittiche e piene di cicche per recintare l’area sottratta allo spazio pubblico.
Credo che questi dehors, così tanti e così invadenti – anche se, nella situazione odierna, potrebbero sembrare ancora utili al commercio – con l’andare del tempo diventeranno parti di una offerta commerciale congestionata, troppo simile a quella di altre città, priva di specificità e, di conseguenza, di scarsa capacità attrattiva e, ancora, credo che il numero rilevante dei dehors e il loro accostamento quasi senza soluzione di continuità, ci toglieranno la sorpresa festosa e rituale di scoprire la città invasa da bancarelle la settimana prima di Natale o durante la sagra pagana di Friuli Doc.
E, per finire, circa i rimedi per ovviare all’inadeguatezza dei dehors (che, a questo punto, utilizzando un lessico confidenziale, potremmo anche chiamare gabbiotti), non credo che un piano normativo capace di uniformare dimensioni, sagome e materiali possa avere esito positivo in quanto, per esperienza professionale, sono convinto che la complessità dell’argomento determini una sua ingovernabilità e, per questo motivo, penso che l’unica soluzione sia quella di rimuoverli in maniera definitiva dalle strade e dalle piazze restituendo il paesaggio urbano ai cittadini ed ai turisti i quali, in questo modo, potranno riprendersi le stanze dei bar, dei ristoranti e delle poche osterie rimaste e, quando il clima annuncerà la primavera, potranno anche sedersi sotto i portici o lungo i marciapiedi più larghi, nei cortiletti e nei piccoli giardini e riportare così la nostra città alla sua sobria e antica eleganza.
Paolo Coretti