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Opinioni

Contro la crisi climatica non bastano i calcoli, serve uno scatto morale

Il ciclone Boris si è abbattuto sull’Europa. Le immagini delle alluvioni, storiche per la loro intensità, non sono purtroppo inedite. L’Europa centro-orientale, dall’Austria alla Polonia, dalla Slovacchia alla Romania, è stata colpita da inondazioni con pochi precedenti. Ci sono stati dispersi, diverse vittime, mentre la popolazione di alcune zone è stata costretta all’evacuazione.

Facciamo ormai fatica a chiamare eccezionali eventi come questo. Chi studia il clima ci dice che i fenomeni meteorologici estremi stanno crescendo in frequenza e che questo fatto è uno degli indicatori del cambiamento in atto. Un cambiamento che all’inizio può sembrare trascurabile, ma con effetti non totalmente prevedibili. Gli ecosistemi e il clima sono sistemi complessi, in cui le variazioni e gli effetti su più larga scala generati non osservano un comportamento lineare. Facciamo un esercizio di immaginazione: come cambierebbe la nostra vita nel momento in cui il dover lasciare la propria casa per un’alluvione estrema non fosse un’eventualità remota o eccezionale, ma una possibilità in grado di ripresentarsi più volte nel corso della vita di un uomo? Come i nostri servizi e i sistemi produttivi sarebbero costretti a riconfigurarsi? Come i nostri progetti di vita ne risentirebbero?

Si parla molto di cambiamento del clima, ma non è immediato “calcolare” le conseguenze concrete che tutto ciò ha sulle nostre vite. E non ho scelto a caso il verbo “calcolare”. Il nostro primo approccio è la conta dei danni, accompagnata da una scrupolosa analisi degli impatti economici sui bilanci pubblici e delle famiglie: di quanto cresceranno le polizze sulle assicurazioni? È il metodo basato sulla gestione del rischio. Accurati calcoli del rischio permettono infatti di individuare i territori e le categorie di persone più vulnerabili ed esposte al rischio climatico, così da “mettere in conto” le misure preventive e le strategie in grado di mitigarlo.

Tutto è fondamentale, ma non sufficiente nella misura in cui l’ambiente che cambia non genera in noi un surplus di consapevolezza, che è parte di ciò che ci stiamo abituando a chiamare conversione ecologica. Calcolare serve, gestire il rischio anche. Ma è uno scatto morale ciò che in noi può cambiare le cose. Un cambiamento della mente, la metànoia biblica, irriducibile al calcolo: per accorgersi, dopo due secoli di progressi tecnici inediti, quanto la vita delle comunità umane sia inseparabile da un equilibrio sottile e fedele con l’ambiente, con quella casa comune che la ospita e dal rapporto con i suoi beni.

Perché la soluzione tecnica è solo una parte della risposta. Lo abbiamo visto anche in questi giorni in cui il ciclone ha colpito l’Emilia Romagna, già protagonista poco più di un anno fa di un evento simile. Polemiche tra Regione e Governo, non tanto sul cosa fare, che si sa. Strascichi politici, invece, sui ritardi dei fondi, dell’avvio delle opere, che ci mostrano quanto i temi di governance, che sono in primis temi di relazione e di mediazione tra interessi in parte contrapposti e in parte comuni, e non solo di geometrica divisione di ambiti di competenze, sono e saranno centrali, soprattutto nel momento in cui molti bisogna fare delle scelte che non potranno lasciare indietro nessuno.

Eventi come quelli degli scorsi giorni potrebbero aiutarci a comprendere che la risposta alla vulnerabilità condivisa, che ieri si chiamava Covid e che oggi sperimentiamo guardando agli effetti del clima, non può che essere comune, e sussidiaria. Non basteranno gli studi degli esperti, né i report degli analisti, forse nemmeno il debito comune europeo. Forse occorre un nuovo rapporto con i beni comuni, primo fra tutti l’ambiente, bene comune locale e globale per eccellenza.

Tommaso Nin

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