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Luci tra le sbarre

Compagno di viaggio. Testimonianza dal carcere di Tolmezzo

Che ruolo ha un cappellano in carcere? Quale il valore della sua presenza? Che sostegno può dare, in un luogo segnato dal dolore, un volto amico, che ascolta la sofferenza della reclusione? Sono interrogativi che trovano risposta nelle parole che abbiamo raccolto da p. Claudio Santangelo C.M., che presta servizio ogni settimana nel penitenziario di Tolmezzo. «Pensieri ed emozioni sparsi – tiene a precisare il sacerdote vincenziano – difficili da esprimere a parole, ma impressi nel profondo, nel mio cuore».

«Due anni fa entravo per la prima volta nella casa circondariale di Tolmezzo, accompagnato dal mio predecessore don Bogus – racconta p. Claudio –. Varcavo quei cancelli con un po’ di eccitazione e con la curiosità di conoscere un mondo così diverso dal quale a cui ero abituato, curioso di scoprire ogni giorno, oltrepassando l’ingresso, che cosa Dio avesse in serbo per me e in che modo avesse preparato le cose che mi attendevano. Ora, a distanza di due anni, quella curiosità è rimasta, ma il sentimento più grande che provo è gratitudine».

Com’è possibile provare gratitudine per il fatto di entrare in un luogo dove nessuno vorrebbe mai entrare? Di cosa si può essere riconoscenti, in un luogo in cui si incontrano prevalentemente dolore e sofferenza? «È vero, lì vedo tanta sofferenza, tanto dolore, violenza e brutture – risponde il cappellano –, ma proprio per questo è bello, proprio in carcere, poter condividere con i detenuti un po’ dei loro pesi e dolori; è bello – ed è un privilegio – portare in quel luogo Gesù; è bello far sentire la presenza della Chiesa, è bello poter celebrare l’Eucaristia e portare la Buona Notizia che il Signore non si dimentica di nessuno e che è vicino a tutti, per rialzare ognuno di noi quando inciampiamo nelle pietre della vita e rischiamo di rimanere a terra. Il Signore rialza e il cappellano è lì in carcere per ricordare quello: una presenza discreta, che non giudica – che non si chiede “Sono pentiti?” “Non sono pentiti?” –, ma che offre un volto amico, un aiuto, un sostegno, conforto. È un compagno di viaggio».

P. Claudio confida che spesso le persone gli chiedono se ha paura ad entrare in carcere. «Non l’ho mai avuta, il Signore mi ha fatto questa Grazia – risponde loro il cappellano –. Ho avuto e ho tuttora, invece, interesse e desiderio di mettermi al servizio del progetto di Dio, che passa anche attraverso le miserie e gli sbagli umani. È bello poter aiutare i detenuti a leggere la loro storia con gli occhi della fede, a gettare un nuovo sguardo su ciò che hanno vissuto. È bello, insieme, pregare il Rosario, invocare il Signore per loro, per le loro famiglie, per tante persone del mondo che soffrono… È bello poter volgere insieme lo sguardo in alto, verso Dio».

«Apri il cancello, chiudi il cancello. Da due anni, dietro l’apparente ripetitività e monotonia esteriore di certi gesti che si ripetono di settimana in settimana – conclude p. Claudio –, ogni giorno incontro una storia nuova, che diventa per i detenuti storia di salvezza. Ed è così anche per il cappellano».

 

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