Ma perché ti fai prete, se volevi fare del bene potevi fare anche altro, lo sai? Quante volte mi sarò sentito dire, nel mio seppur ancora breve cammino vocazionale, questa obiezione, anche da persone vicine ai nostri ambienti.
Dietro questa frase ci sono almeno due tranelli: ritenere la scelta del Seminario equipollente a quella di altre facoltà universitarie o percorsi di vita; oppure, in fondo in fondo, quello del prete potrebbe essere pensato come un mestiere, una sorta di operatore sociale, solo che in più dice la Messa.
C’è un passaggio “sacerdotale” della lettera agli Ebrei che credo possa illuminare questi inganni: «nessuno attribuisce a sé questo onore, se non chi è chiamato da Dio, come Aronne» (Eb 5,4). Come a dire che non ci si fa preti da soli, la chiamata viene sempre da Dio!
Potrebbe essere forse più facile auto-candidarsi con un test d’ingresso (e magari qualche vescovo nel corso del tempo ci avrà pure pensato!), ma questo è impensabile; anche quando dovessimo trovare le soluzioni a tutte le nostre domande, la chiamata di Gesù nei nostri personali confronti rimarrebbe sempre e comunque un mistero d’amore.
Se ci pensiamo lo stesso Gesù non si è auto-candidato “sacerdote in eterno”, ma è stato chiamato dal Padre stesso a esserlo (Eb 5,5-6).
Anche per i giovani in cammino in Seminario, come me, vale lo stesso principio: per ciascuno la voce del Padre ha riservato una parola speciale. Non per una serie di richieste da svolgere o di compiti da assumere quando saremo preti, ma anzitutto per essere figli: «Tu sei mio figlio, oggi ti ho generato» (Eb 5,6). Ciò significa che un giorno da sacerdoti, entrando nell’unico “corpo ecclesiale”, potremo offrire una mediazione da figli tra altri figli, perché tutti possano crescere nel loro personale rapporto con il Padre. Non maestri, dunque, ma fratelli, sulla stessa strada. Già lo stiamo sperimentando oggi da seminaristi nelle realtà delle nostre parrocchie, stando accanto a quel giovane in difficoltà, ascoltando quella signora che si lamenta sulla soglia della chiesa, imparando dallo sguardo fiero ma anche velato e dal senso di preoccupazione per il futuro dei figli di quel padre di famiglia. Sono sempre più convinto che non ci siano ricette da propinare, poiché siamo tutti rivestiti di umana debolezza; piuttosto c’è da fare attenzione alle situazioni che la vita ci mette d’innanzi per offrire all’altro uno sguardo rinnovato, che ci faccia assaporare una giusta compassione per chi desidera vedere di nuovo, per chi si trova ai bordi delle strade del mondo. Come Bartimeo nel Vangelo (Mc 10,46-52).
Il versetto di un Salmo molto celebre recita così: «Il Signore ha giurato e non si pente: “Tu sei sacerdote per sempre al modo di Melchìsedek”» (Sal 109,4). Questo passaggio, come una pennellata, mi fa pensare ai tanti sacerdoti appassionati che ho conosciuto nella mia vita, da cui mi sono sentito dire: «Coraggio, alzati, ti chiama!» (Mc 10,49). Penso a chi sta per iniziare o ha appena iniziato un ministero in nuove comunità; penso a chi, come tanti missionari sono portati ad annunciare il Vangelo in giro per il mondo; penso pure, con tanta delicatezza, a quelli che hanno lasciato il ministero o si trovano in difficoltà. Insieme ai giovani in discernimento vocazionale, ai seminaristi e agli educatori, in questa Giornata del Seminario, preghiamo anche per loro, perché tutti possano sentirsi avvolti dall’amore di Dio, sapendo che per ciascuno ha detto: «Il Signore ha giurato e non si pente: Tu sei sacerdote per sempre!». Un giorno un bravo prete mi ha confidato che tutti gli hanno sempre chiesto perché ha deciso di entrare in seminario, ma nessuno gli ha mai chiesto perché è rimasto e rimane ancora, ogni giorno. Che sia proprio per quel «per sempre»?
Matteo Ranieri
Seminarista del quarto anno