«I vantaggi del potere e di tutto ciò ch’esso procura sono il fine dell’attività umana finché non si raggiungono; ma, appena vi è pervenuto, l’uomo si accorge della loro vanità». Forse non è troppo ardito aprire con una frase di Lev Tolstoj un tema che la SPES, Scuola di Politica ed Etica Sociale, affronterà nel suo prossimo incontro. Lunedì 2 dicembre, infatti, alle 18.15 nella consueta sede del palazzo Garzolini-Di Toppo-Wasserman di Udine, il tema sarà proprio il potere. O meglio, la sua radice spirituale, come Tolstoj lascia intuire. Il titolo? «Governare o governarsi? Sull’essenza del potere tra dominio e cura». Ad animare l’incontro della Scuola sociopolitica – a cui quest’anno partecipa un gran numero di giovani – sarà un nome importante della spiritualità contemporanea: Luciano Manicardi, monaco della comunità di Bose, in Piemonte, che peraltro ha diretto dal 2017 al 2022. «Serve un percorso che culmini con l’integrità della persona, che è il contrario della corruzione», ha spiegato Manicardi, raggiunto da Radio Spazio e La Vita Cattolica.
Luciano Manicardi, cosa intendiamo per potere e qual è la sua essenza?
«Potere è anzitutto un verbo servile. Non è autonomo, serve ad altro, serve altri, serve a qualcosa, non è assoluto. Una nozione corretta di potere, quindi, esclude l’onnipotenza. Quindi il potere autentico ha dei limiti e lo gestisce chi è rivestito di autorità per nomine o, per elezioni.»
Quello dell’autorità è un altro tema che abbraccia tanto l’educazione quanto l’amministrazione. Restiamo nelle definizioni: cos’è l’autorità?
«Autorità viene da una parola latina, augere, che significa far crescere. Il vero potere quindi porta a far crescere la vita e gli altri. È come “generare potere” per altri, creare possibilità nuove per la comunità. Insomma, c’è una dimensione relazionale.»
Oggi però si parla di potere in termini, spesso, negativi…
È vero, è quasi sinonimo di assoggettamento, di dominio, tanto nei rapporti interpersonali quanto in quelli politici. La critica del sociologo Michel De Foucault è stata indirizzata proprio contro questa declinazione del potere come dominio e di assoggettamento come punizione. Si tratta, a mio modo di vedere, di una assolutizzazione del potere, di un farlo diventare un idolo. Se non è più relazionale il potere si perverte.»
Quali possono essere alcuni campanelli dall’arme che indicano una deriva verso una logica di potere nel senso negativo?
«Quando ricoprire una carica diventa un’abitudine si rende meno intensa la vigilanza su di sé, sulle proprie azioni. Si sente meno il pungolo all’impegno, alla dedizione, ci si sente padroni. Ecco allora che l’eccessiva dimestichezza con l’ambiente del potere può portare al formarsi di cricche, lobby, complicità in cui non si sembra poi così grave la contaminazione del servizio pubblico con piccoli interessi privati per dei piccoli o grandi privilegi. La logica mafiosa nasce anche in questo modo quasi insensibile, quotidiano. Poi c’è anche la difficoltà di lasciare un incarico di responsabilità, identificandolo con la propria persona: purtroppo lo possiamo vedere in tanti ambiti.»
L’intervista completa, a cura di Giovanni Lesa, si può trovare sull’edizione de La Vita Cattolica del 27 novembre 2024.