In Friuli-Venezia Giulia mancano 200 medici di medicina generale. Una carenza che cresce di anno in anno: a gennaio 2024 era di 151, un anno prima di 116. Sono i dati preoccupanti che emergono dall’ultimo rapporto della Fondazione Gimbe. Da cui risulta anche che la percentuale di medici di famiglia con più di 1.500 assistiti è arrivata al 52,4%, rispetto al 49,2% del precedente rapporto. Nella nostra regione il calo di medici di famiglia dal 2019 al 2023 è stato del 12,9%, superiore alla media italiana del 12,7%. E le cose sono destinate a peggiorare. Entro il 2027, infatti, raggiungeranno i 70 anni, ovvero l’età della pensione, ben 116 medici. La situazione riguarda tutta l’Italia, dove la carenza, secondo il rapporto Gimbe, è di 5.500 medici, ed evidenzia una vera e propria disaffezione nei confronti della professione. A confermarlo anche la bassa partecipazione ai bandi per il corso di formazione in Medicina generale, gestito a livello regionale dal Ceformed. Gli aspiranti superano solo del 10% il numero dei posti disponibili. Certo, il dato friulano è migliore rispetto ad altre regioni (le Marche ad esempio hanno un -68%), ma non sufficiente a garantire un ricambio, dal momento che sono molti coloro che, pur vincendo la borsa di studio, poi scelgono altre specializzazioni, più remunerative.
«Il fatto che ci saremmo trovati con pochi medici di famiglia e con una popolazione sempre più anziana è risaputo da almeno 10 anni, ma non se ne è tenuto conto».Ad affermarlo è Anna Maria Bergamin Bracale, presidente dell’Ordine dei medici di Udine.
Dottoressa, questa carenza è percepita con disagio dai cittadini, che, per essere visitati dal proprio medico, sempre più spesso sono costretti a fare una prenotazione, cosa che un tempo non accadeva.
«In realtà, non tutti i medici lavorano solo per appuntamento. Purtroppo, però, devo dire che i colleghi medici di famiglia si trovano a lavorare in una situazione estenuante. Anch’io so che un tempo non era così. Oggi però, oltre alla carenza di medici, c’è anche il cambiamento dell’utenza: l’invecchiamento – in Friuli-V.G. il 28% della popolazione ha più di 65 anni – ha fatto sì che ci siano sempre più pazienti con due o tre patologie, i quali, per questo motivo, necessitano di molto più tempo. Spesso non possono spostarsi da casa e devono essere visitati a domicilio. Negli anni sono anche cresciuti moltissimo gli oneri burocratici, un carico inimmaginabile. Probabilmente con questo tipo di utenza già i 1.500 pazienti per medico sono troppi».
Come mai siamo arrivati a questo punto?
«Ripeto: non c’è stata una programmazione adeguata agli allarmi che erano stati lanciati già 10 anni fa. Inoltre il percorso di formazione in Medicina generale non è remunerativo alla pari delle altre scuole di specializzazione: siamo sotto i 1000 euro. E anche dopo la specializzazione manca – ma questo vale per tutti i medici – il riconoscimento economico, che è molto inferiore al resto d’Europa. Ho sentito racconti di colleghi che sono andati a lavorare in Francia e Germania e che hanno fatto subito carriera. I nostri medici sono preparatissimi. Bisogna fare in modo di trattenerli, migliorando le condizioni non solo economiche, ma anche lavorative. Non si possono visitare 50 persone al giorno, il rischio è di fare errori, esponendosi pure a contenziosi legali».
Il Governo si appresta a portare in Parlamento una riforma che prevede di rendere i nuovi medici di medicina generale dipendenti del Sistema sanitario nazionale e non più convenzionati con esso. Che ne pensa?
«Sicuramente la cosa potrebbe avere una sua logica, per mettere tutti i medici giuridicamente sullo stesso piano. Tuttavia, non credo che questa sia la soluzione al problema della carenza di medici di medicina generale. Fondamentale è che ci sia per tutti l’adeguato riconoscimento economico, di carriera e anche del tempo di lavoro e di quello del giusto riposo».
A breve quale potrebbe essere la soluzione?
«Innanzitutto consentire a chi frequenta le scuole di specializzazione di lavorare subito. La vera soluzione sta però nel far lavorare i medici di famiglia in maniera associata, creando la cosiddetta “Medicina di gruppo” in cui si lavora in équipe, con la presenza di un impiegato amministrativo e di un infermiere».
Una soluzione già prevista dalla riforma del 2012, ma mai applicata.
«Attualmente abbiamo praticamente tutti i colleghi che fanno parte di una medicina di gruppo in quanto condividono in rete i dati dei loro pazienti (Medicina di gruppo integrata), ma abbiamo pochi colleghi che condividono l’ambulatorio (Medicina di gruppo a sede unica)».
Come mai?
«Me lo chiedo anch’io, tuttavia è la strada da percorrere. Si tratta di un processo che può essere spinto e favorito dalla politica. La volontà da parte dei medici credo ci sia. Per tutti la cosa che viene prima è la tutela della salute».
Le Case di comunità possono essere una soluzione?
«Sì, potrebbero. Però il problema delle Case di comunità è che al momento sono dei contenitori vuoti, perché mancano gli infermieri e i medici con cui riempirle».
Stefano Damiani