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Opinioni

A 15 anni dalla morte di Eluana Englaro, la “via italiana” all’eutanasia

Il 9 Febbraio del 2009 moriva a Udine Eluana. Sono passati 15 anni, ma sembra un secolo. Il terreno di gioco è profondamente mutato e non certo nel senso del rispetto della vita.

Eluana morì quando fu accolta la richiesta del padre/tutore di sospendere ogni cura, fino a provocare la morte della paziente, sulla base di una presunta affermazione precedente di volontà. Di questa volontà non fu possibile verificare fino in fondo la consistenza, dato che il giudizio si svolgeva in sede civile e senza reale contraddittorio, nell’impossibilità dunque di portare prove diverse, per quanto fossero state notoriamente individuate.

Eluana fu consegnata a una associazione costituita il giorno prima che aveva come unico scopo statutario quello di por fine alla vita della paziente. Il dramma, che allora lacerò l’Italia, si consumò appaltando alla stessa associazione alcune stanze di una struttura sanitaria udinese, temporaneamente cedute per evitare i divieti del Ministro della Sanità. Con i buoni uffici dell’allora Presidente Tondo, fu così resa disponibile struttura di degenza al di fuori del SSN, malgrado fosse stata aperta senza le dovute autorizzazioni.

Eluana purtroppo si rivelò presto essere era solo uno strumento per coloro che avevano progettato già da allora la via italiana all’eutanasia.

Dopo di allora, infatti, è incominciato il turismo della morte verso la Svizzera, organizzato da Marco Cappato, fino alla svolta impressa dalla morte il 27 febbraio 2017 di Fabiano Antonioni (noto come DJ Fabo). Al ritorno da Zurigo, Cappato si autodenunciava per l’aiuto al suicidio.

Alla fine di dicembre dello stesso anno, la Camera, relatore il cattolico Marazziti, approvava la legge sulle dichiarazioni anticipate di trattamento (DAT) e la sedazione terminale profonda. La possibilità di rifiutare i sostegni vitali, ottenuta per Eluana solo al termine di una battaglia giudiziaria durata per anni, diveniva con la 219 un diritto esigibile da chiunque all’interno delle strutture del SSN, con la garanzia della sedazione profonda perché la scelta suicidaria non fosse scoraggiata dalla paura di sofferenze a causa della procedura.

Il 14 febbraio del 2018 la Corte d’Assise di Milano invece di condannare il reo confesso assecondava l’intenzione che stava dietro all’autodenuncia di Cappato, chiedendo alla Corte Costituzionale la valutazione della legittimità del reato di aiuto al suicidio.

Il 27/11/2019 è stata pubblicata la sentenza della Consulta che, proprio facendo leva sulla legge 219/2017, equipara la morte per rinuncia ai sostegni vitali ad un suicidio autorizzato, estendendo la possibilità di realizzarlo anche attraverso l’autosomministrazione di farmaci letali. La Consulta non ha cancellato il reato, ma lo ha reso non punibile quando esso avvenga su richiesta di persona dipendente da sostegni vitali. La Consulta peraltro non ha posto alcun obbligo in capo al SSN, proprio perché il suicidio non rientra tra i compiti dello stato, il cui dovere, secondo la Corte, è invece quello di tutelare la vita e promuovere la salute.

Il resto è cronaca di questi giorni, con la rincorsa dei Consigli regionali a cercare di approvare le proposte di legge di iniziativa popolare promosse dalla Associazione Coscioni di Marco Cappato.

Ultima brillante iniziativa è quella della Giunta regionale dell’Emilia Romagna che, nell’impossibilità di far passare la proposta di legge Cappato, ne traduce i contenuti in una delibera amministrativa che di fatto introduce il suicidio assistito tra le prestazioni del Servizio sanitario regionale.

Occorre notare che in teoria, stando alla Corte Costituzionale, il suicidio di stato dovrebbe essere assicurato solo a chi lo richieda mentre è tenuto in vita da sostegni vitali. Nei fatti, tuttavia, la giurisprudenza è già all’opera per equiparare l’assistenza ordinaria a un sostegno vitale. È quanto accaduto per esempio alla paziente triestina nota col nome di Anna, che non dipendeva da alcun sostegno tecnologico.

Malgrado qualche inceppo, come accaduto di recente in Veneto, è indubbio che in soli 15 anni dalla morte di Eluana, grazie a una sapiente regia, l’uso indotto e strumentale di casi limite, il gioco di sponda di alcune procure, gli interventi della Corte Costituzionale e la giurisprudenza abbiano fatto compiere grandi passi in avanti alla cultura individualistica del “diritto” alla morte anticipata. In Italia l’opinione dominante sembra avviarsi allegramente verso la richiesta di una legalizzazione generalizzata dell’aiuto al suicidio. Quando ciò si tradurrà in leggi e in prassi ne risulterà inevitabilmente stravolto il significato stesso delle professioni e delle istituzioni sanitarie, mentre la posizione dei più fragili ne risulterà psicologicamente e materialmente indebolita. La loro vita non avrà senso rispetto ai costi che comporta il tenerli in vita. Sarà il trionfo della visione efficientistica dell’uomo e la morte, in tutti i sensi, della società solidaristica.

Proprio per questo vale la pena continuare a lottare, sperando contro ogni speranza, convinti di fare un servizio all’uomo, alla medicina, alla società intera.

Se non ci saranno ripensamenti, il futuro che ci si prepara è già diventato presente in paesi come l’Olanda, il Belgio, il Canada, alcuni stati americani. Dopo il suicidio all’interno delle strutture sanitarie, verrà la morte “pietosa” inferta su richiesta per coloro che non hanno più neanche la capacità di somministrarsi il farmaco letale. Ci sarà poi la morte per coloro la cui vita non è più considerata dignitosa, naturalmente nel loro migliore interesse; ci sarà poi la morte per i depressi che ne faranno “liberamente” richiesta”. Infine, si prospetterà la morte volontaria anche per quanti siano in età sufficientemente avanzata da aver “completato il loro progetto di vita”. Un copione già scritto, a beneficio solo dei più forti e delle finanze pubbliche.

Gianluigi Gigli

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