La legge sul cosiddetto regionalismo differenziato definisce i princìpi generali per l’attribuzione alle Regioni a statuto ordinario di ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia in attuazione dell’art. 116, comma 3, della Costituzione, nonché le modalità procedurali per conseguire tale risultato e, nella prima riga dell’art. 1, dichiara esplicitamente la sua finalità: “rimuovere discriminazioni e disparità di accesso ai servizi essenziali sul territorio”.
Per tale ragione, essa prevede che debbano essere determinati i livelli essenziali di prestazione (LEP) che riguardano i diritti civili e sociali, da garantire a tutti i cittadini senza distinzioni territoriali e che siano determinati i relativi costi e fabbisogni standard; solo dopo si possono eventualmente attribuire alle Regioni nuove funzioni in queste materie. La legge specifica anche che la determinazione dei LEP e dei relativi costi vada aggiornata periodicamente, attraverso processi decisionali condivisi tra Stato, Regioni e Comuni, e soggetti al controllo di organi terzi e imparziali, come la Corti dei conti, in modo che la garanzia dei diritti sia sempre effettiva.
La legge individua poi le modalità di finanziamento delle nuove funzioni attribuite alle Regioni che le richiedano: le compartecipazioni al gettito dei tributi erariali maturati nel territorio, in modo simile a quanto avviene oggi per le regioni speciali. Allo stesso tempo, però, in ossequio al principio costituzionale di solidarietà, fissa delle garanzie per le Regioni che non siano interessate ad acquisire ulteriore autonomia, che devono poter sempre contare sulle risorse necessarie ad assicurare i diritti dei loro cittadini; inoltre la legge ribadisce, per i territori meno ricchi, la garanzia costituzionale degli interventi perequativi che, grazie alla determinazione dei LEP, potranno finalmente basarsi su dati oggettivi e non più sulla spesa storica, cioè sulle risorse finora trasferite dallo Stato a ciascuna Regione, senza verificare se fossero di meno o di più di quanto effettivamente necessario per garantire i servizi.
Si tratta quindi di un testo che detta i principi che fungeranno da cornice ai percorsi che ciascuna Regione potrà – se vorrà – intraprendere, ma non ne definisce di certo l’esito, che sarà invece frutto di un confronto tra Stato e Regione alla fine suggellato con una legge del Parlamento approvata a maggioranza assoluta.
Nei confronti delle Regioni a statuto speciale e delle Province autonome di Trento e di Bolzano, la legge rinvia alla cosiddetta clausola di maggior favore, ovvero a quella clausola che prevede che la disciplina in questione si possa applicare anche a loro qualora preveda forme di autonomia più ampie di quelle già garantite, a ribadire che un ampliamento dell’autonomia delle Regioni ordinarie non può tradursi, comparativamente, in una riduzione degli spazi di autonomia delle Speciali.
In sintesi, considerati gli obiettivi che si pone, questa legge può costituire un importante strumento di progresso per il Paese, dopo decenni di risultati non appaganti su temi cruciali quali l’eguaglianza nel godimento dei diritti e il buon governo delle risorse pubbliche. Risultati a causa dei quali una parte dei cittadini si sente – a torto o a ragione – pregiudicata dalla mancanza di servizi adeguati, mentre un’altra parte si sente – a torto o a ragione – oppressa da un prelievo fiscale che percepisce iniquo: una situazione che certo non ha incentivato sino a oggi la coesione sociale.
Uguaglianza dei diritti e buon governo delle risorse possono invece essere conseguiti se si considera il tema del regionalismo non come purtroppo spesso si è fatto nella storia repubblicana, cioè sulla base di logiche tutte interne alle dinamiche politiche tra maggioranza e opposizione del momento, ma ricordando le ragioni per le quali i Costituenti scelsero la forma di Stato regionale: valorizzare l’eterogeneità geografica e storica delle diverse parti del Paese, favorendone così la coesione; consolidare la democrazia avvicinando i cittadini alle istituzioni, accrescendone la responsabilità, l’attaccamento alla cosa pubblica e il controllo sulla stessa, rendendo più consapevole l’esercizio dei diritti politici; rinnovare lo Stato, riformando la pubblica amministrazione centrale e riqualificando l’attività legislativa del Parlamento che, non più obbligato a disciplinare nel dettaglio numerose materie, sarebbe stato posto nelle condizioni di concentrare il proprio impegno sulle grandi scelte politiche.
Tutti obiettivi che, a distanza di quasi ottant’anni, mantengono la loro attualità e rispetto ai quali la traiettoria tracciata dal regionalismo differenziato previsto in Costituzione è del tutto coerente. Per questo sarebbe bene che il dibattito politico non inquinasse questi temi con narrazioni suggestive e irrazionali, foriere solo di disinformazione e conflitti.
Elena D’Orlando
Direttrice del Dipartimento di Scienze giuridiche, Università di Udine