di don Michele Lacovig
La giornata mondiale del malato ricorre nel medesimo giorno dell’anniversario delle apparizioni della Madonna a Lourdes, meta di pellegrinaggio per molte persone malate.
Essa fu indetta, nel 1993, da Papa Giovanni Paolo II con l’intenzione di istituire “un momento forte di preghiera, di condivisione, di offerta della sofferenza per il bene della Chiesa e di richiamo per tutti a riconoscere nel volto del fratello infermo il Santo Volto di Cristo che, soffrendo, morendo e risorgendo ha operato la salvezza dell’umanità” (Papa Giovanni Paolo II, Bolla di indizione). Questi concetti vengono spiegati nella lettera Apostolica Salvifici Doloris del 1984 (anno della Redenzione) dalla quale trarrò le citazioni. La malattia sconvolge i progetti di chi ne viene colpito in prima persona e anche dei suoi familiari ed amici; essa comporta conseguenze corporali: dolore, fatica e la perdita parziale o totale dell’autosufficienza, psicologiche ad esempio senso di inutilità e anche conseguenze spirituali.
San Giovanni Paolo II scrive: “si tratta infatti, del dolore di natura spirituale (…) che accompagna sia la sofferenza morale sia quella fisica”. Il dolore dell’anima si manifesta attraverso le domande di significato: perché proprio a me? Che senso ha questa situazione se la salute mi servirebbe per adempiere ai miei doveri? Cosa ho fatto di male per aver meritato questo? Dio non rimane sordo al grido del sofferente: “L’uomo può rivolgere un tale interrogativo a Dio (…) e Dio aspetta la domanda e l’ascolta”, come avviene nel libro di Giobbe.
Innanzitutto, da un punto di vista terreno, va riconosciuto che la malattia può costituire anche un’opportunità di solidarietà tra i malati stessi e con familiari ed amici permettendo all’uomo di “ritrovarsi pienamente attraverso un dono sincero di sé”. Un giovane uomo mi raccontava che, negli ultimi giorni di vita, il papà gli aveva detto ciò che non aveva mai espresso ovvero che gli voleva bene; oppure mi è capitato di incontrare coppie sposate da decenni che hanno riscoperto la forza del loro legame condividendo la malattia o chi, durante la degenza, ha rivisto il suo passato chiedendosi se le priorità scelte fossero davvero le più importanti. Il Papa polacco approfondisce il tema attraverso gli occhi della fede: il momento del dolore può diventare propizio per un cammino di conversione come per Sant’Ignazio di Loyola oppure occasione di testimoniare una certa “maturità spirituale” sull’esempio dei Santi Martiri e di tutte le persone che hanno fatto della sofferenza un’opportunità salvifica per sé e per gli altri (come non ricordare la Crocifissa di Mereto
la venerabile Concetta Bertoli). Tutto ciò è possibile perché Gesù stesso rivela il senso profondo della sofferenza trasformando la croce in strumento di redenzione: Cristo soffre volontariamente ed innocentemente aprendo all’uomo la possibilità di salvarsi dalla sofferenza definitiva ovvero la dannazione. Papa Woytiła esorta ad assumere una prospettiva che si apra all’eternità ed alla
comunione con Cristo e la Chiesa in modo che avvenga un “superamento del senso di inutilità della sofferenza (…) questa non solo consuma l’uomo dentro se stesso, ma sembra renderlo un peso per gli altri (…) la fede nella partecipazione alle sofferenze di Cristo porta in sé la certezza interiore che l’uomo sofferente completa quello che manca ai patimenti di Cristo”. Come mi
confidava un sacerdote udinese: patisco, ma sono sereno perché sono con Lui, sulla croce. Dunque, Cristo “ha insegnato a far del bene con la sofferenza ed a fare del bene a chi soffre”.
Rivolgendomi a tutte le persone che accompagnano i malati li invito a riflettere sull’episodio della visitazione di Maria ad Elisabetta: la Madre di Dio le offre un aiuto pratico, ma soprattutto porta Cristo stesso presente nel suo grembo! Possa attraverso la nostra umanità redenta, abitata dallo
Spirito Santo, manifestarsi il Signore risorto!