Mercoledì 14, celebrando con tutta la Chiesa il rito penitenziale delle ceneri, siamo entrati nel tempo “forte” della Quaresima, un tempo che, come abbiamo ascoltato nella seconda lettura di quella liturgia, è il tempo favorevole per la nostra conversione, per il nostro ritorno a Dio con tutto il cuore e con tutta l’anima. Per vivere questo cammino la Chiesa ci dona tre “compagni di viaggio”, ovvero il digiuno, l’elemosina e la preghiera. Vorrei soffermarmi sull’aspetto meno attraente dei tre nella nostra epoca: il digiuno.
Questa pratica ascetica non appartiene solamente al mondo cristiano, ma all’uomo religioso di ogni tempo. Per quanto riguarda la tradizione cristiana il digiuno trova le sue radici all’interno dell’esperienza di Israele.
Nella società moderna il digiuno è spogliato del suo carattere spirituale e rivestito di quello sociale e politico: viene visto, infatti, come mezzo di protesta per esercitare pressione sulle autorità al fine di ottenere benefici o soddisfare le pretese delle persone coinvolte.
Nel contesto biblico, invece, il digiuno ha un significato qualitativamente diverso: non è un modo per affermare la propria volontà, ma è un mezzo per aprirsi all’opera di Dio, per esprimere il profondo dolore per il peccato commesso e per fare ancora una volta esperienza di Colui che “dona il cibo a tempo opportuno, e apre la mano per saziare ogni vivente” (cf. Sal 144).
Comprendiamo bene come il digiuno consista nel misurare il proprio rapporto con il cibo per riconoscere un nutrimento indispensabile: la volontà di Dio. È un’esperienza esistenziale: l’assenza, o al contrario, l’abbondanza smisurata del cibo ci tocca nell’intimità del nostro essere innanzitutto corpi. L’esperienza del prendere cibo, dell’allontanarlo dalla nostra bocca o del ridurne la quantità, anche per ragioni di salute, è qualcosa che lavora sul delicato rapporto fra corpo e spirito. Questa pratica quindi non è mai fine a se stessa, ma è azione simbolica, ovvero azione che mette in comunicazione e in comunione la persona con il mondo, con i fratelli e con Dio.
Spesso, soprattutto agli adolescenti, vengono proposte forme di digiuno alternative a quella dal cibo, come ad esempio limitare il tempo passato davanti alla televisione oppure quello impiegato con i videogiochi o ancora quello passato a “scrollare” contenuti sui vari social media. Credo che queste forme di astensione siano buone, ma che non possano sostituire il digiuno dal cibo. Piuttosto è quest’ultimo che può formare all’uso responsabile dei social, proprio perché è un richiamo continuo all’essenziale che ancora una volta non è dato da noi, ma è dono di Dio. Vivendo autenticamente il digiuno siamo anche educati ad abitare la rete in maniera nuova: sia in termini qualitativi, ovvero a livello del materiale che pubblichiamo (basti pensare a quanti commenti cattivi e offensivi spesso si leggono sotto qualche post e a quale gogna mediatica vengono sottoposte ogni giorno migliaia di persone), sia in termini quantitativi imparando, cioè, a dedicare all’uso dei social il giusto spazio di tempo, senza toglierlo alle relazioni fondanti della nostra vita.
Il rapporto con il cibo, in quanto simbolo primario della vita, realtà che sta tra gli uomini e il mondo e, dunque, capace di creare o annullare relazioni, può educarci anche all’uso sano di altri elementi che in qualche modo possono essere oggetto di consumo e possono consumare l’uomo. L’insegnamento del Maestro è illuminante: l’uomo non vive solo di pane e neppure di social, ma di ciò che veramente edifica e irrobustisce la relazione con il Padre e con i fratelli.
Don Christian Marchica