«Qui in Friuli-Venezia Giulia ci siamo sentiti a casa» ha esordito il card. Matteo Maria Zuppi, davanti al Papa e ai delegati. Con allegria e buonumore, il presidente dei Vescovi domenica mattina ha introdotto l’ultima sessione di lavori al Centro congressi. «Come fa un cristiano a non essere sociale? Qui a Trieste non abbiamo parlato di partecipazione, ma l’abbiamo vissuta. E la voglia di partecipazione è aumentata: unendo lo spirituale e sociale possiamo fare del mondo ciò che Dio vuole», ha affermato il cardinale.
«Alle sfide vogliamo rispondere da cristiani, con atteggiamento di fiducia e speranza», perché «Al centro della Chiesa italiana c’è sempre Gesù». «I cattolici – ha concluso Zuppi – non sono una lobby e non sono di parte. L’unica parte è la persona, qualunque, dall’inizio alla fine della vita, senza passaporto. Come insegna Cristo».
Prima di cedere la parola al Papa, il microfono è passato a mons. Luigi Renna. «In questi giorni – ha detto – sono emerse due parole: partecipazione e persona. Sono due “P” da cui se ne genera una terza: la politica».
Francesco: «Il nonno mi parlò di Trieste»
È con molta attenzione, ma anche notevole fatica, che il Papa ha ascoltato le parole di Zuppi e di Renna. A un suo cenno, una persona dello staff si è avvicinata, portandogli un bicchiere d’acqua e allungandoli quattro fogli: è il momento dell’atteso discorso di Francesco a conclusione delle Settimane Sociali triestine. Parole, a loro volta, ricche di buonumore, un’intesa e un gioco di sguardi tra Francesco e Zuppi. «Buongiorno!»
Ha voluto iniziare con un ricordo personale, il Papa: «La prima volta che ho sentito parlare di Trieste – ha detto – è stato da mio nonno che aveva fatto la guerra sul Piave. Lui ci insegnava tante canzoni e una era su Trieste: “Il general Cadorna scrisse alla regina: ‘Se vuol guardare Trieste, che la guardi in cartolina’”. E questa è la prima volta che ho sentito nominare la città». Risate scroscianti, il buonumore del Santo Padre ha subito fugato i dubbi sulla sua condizione fisica. Ma il discorso è subito tornato serio: «La democrazia non gode di buona salute. Questo ci preoccupa perché è in gioco il bene dell’uomo», ha affermato il Papa. «L’atteggiamento della responsabilità nei confronti delle trasformazioni sociali è una chiamata rivolta a tutti i cristiani, ovunque essi si trovino a vivere e ad operare».
Aveva ben presente, Francesco, che l’immagine scelta per questa 50° edizione delle Settimane Sociali era un cuore. Così come il titolo: «Al cuore della democrazia». «Avete scelto il cuore: la crisi della democrazia è come un cuore ferito. Ogni volta che qualcuno è emarginato, tutto il corpo sociale soffre. La cultura dello scarto disegna una città dove non c’è posto per i poveri, i nascituri, le persone fragili, i malati, i bambini, le donne, i giovani, i vecchi. Questo è la cultura dello scarto».
Sulle spalle di Moro e La Pira
L’ascolto dell’assemblea è attento. C’è chi prende appunti, chi ha lo sguardo inchiodato sull’uomo vestito in bianco. Che ha citato due figure chiave nel cattolicesimo sociale del Novecento italiano. La prima, Aldo Moro: «Egli ricordava che “uno Stato non è veramente democratico se non è al servizio dell’uomo, se non ha come fine supremo la dignità, la libertà, l’autonomia della persona umana, se non è rispettoso di quelle formazioni sociali nelle quali la persona umana liberamente si svolge e nelle quali essa integra la propria personalità”».
Nelle parole di Francesco c’è spazio per un altro grande nome del cattolicesimo sociale: Giorgio La Pira, sindaco di Firenze per due mandati negli anni Cinquanta e Sessanta, recentemente dichiarato venerabile dalla Chiesa. Sul suo esempio, ha detto il Papa, «Non manchi al laicato cattolico italiano questa capacità “organizzare la speranza”».
I problemi: astensionismo, assistenzialismo, indifferenza
Chiaro e netto il riferimento del Papa all’ultima tornata elettorale europea: «A me preoccupa il numero ridotto della gente che è andata a votare. Cosa significa quello? Non è il voto del popolo solamente, ma esige che si creino le condizioni perché tutti si possano esprimere e possano partecipare. E la partecipazione non si improvvisa: si impara da ragazzi, da giovani, e va “allenata”, anche al senso critico rispetto alle tentazioni ideologiche e populistiche». Al problema, insomma, si individua una possibile soluzione. Che, per Francesco, non è mai la più immediata. «Certe forme di assistenzialismo che non riconoscono la dignità delle persone … Mi fermo alla parola assistenzialismo. L’assistenzialismo, soltanto così, è nemico della democrazia, è nemico dell’amore al prossimo. E certe forme di assistenzialismo che non riconoscono la dignità delle persone sono ipocrisia sociale. C’è l’indifferenza, e l’indifferenza è un cancro della democrazia, un non partecipare».
La ricetta è la partecipazione
La strada indicata da Francesco, in piena sintonia con i lavori assembleari dell’intera Settimana Sociale, è sintetizzata nel suo «incoraggiamento a partecipare, affinché la democrazia assomigli a un cuore risanato». «La democrazia – ha ricordato il Papa – richiede sempre il passaggio dal parteggiare al partecipare, dal “fare il tifo” al dialogare».
No a una fede privata
Forte, infine, l’invito di Francesco all’impegno sociale: «Come cattolici non possiamo accontentarci di una fede marginale, o privata. Ciò significa non tanto di essere ascoltati, ma soprattutto avere il coraggio di fare proposte di giustizia e di pace nel dibattito pubblico. Questo è l’amore politico, che non si accontenta di curare gli effetti ma cerca di affrontare le cause».
Speranza per costruire il futuro
«Dobbiamo riprendere la passione civile dei grandi politici che noi abbiamo conosciuto. Impariamo sempre più e meglio a camminare insieme come popolo di Dio, per essere lievito di partecipazione in mezzo al popolo di cui facciamo parte», ha detto il Papa, che poi ha concluso con un “ponte” tra la Settimana Sociale triestina e l’ormai imminente anno giubilare: «Questo è il ruolo della Chiesa: coinvolgere nella speranza, perché senza di essa si amministra il presente ma non si costruisce il futuro. Senza speranza, saremmo amministratori, equilibristi del presente e non profeti e costruttori del futuro. Se il processo sinodale ci ha allenati al discernimento comunitario, l’orizzonte del Giubileo ci veda attivi, pellegrini di speranza, per l’Italia di domani».
Giovanni Lesa, inviato a Trieste