«Un’esperienza migratoria trascurata: i friulani in Venezuela» è il titolo illuminante e calzante di un saggio dei primi anni duemila dello storico Javier Grossutti. Nel secondo dopoguerra, con la ripresa dell’esodo di emigranti dal Friuli, il Venezuela fu infatti, insieme all’Australia, una meta inedita rispetto ad altre ben più ambite come Argentina, Stati Uniti e Canada.
Eppure proprio lì prese vita una comunità friulana significativa, ne fece parte anche la mia numerosa famiglia. Una vicenda, la nostra, comune a quella di molti altri: emigrò per primo il più vecchio dei miei fratelli, poco più che ventenne. Trovato un impiego abbastanza stabile, un paio di anni dopo ci sollecitò a raggiungerlo. La decisione non fu difficile da prendere, amavamo la terra dove eravamo nati, ma sognavamo di costruire una vita in cui la miseria potesse essere un ricordo lontano. Certo, non fu una passeggiata, lavorammo sodo, facendo sacrifici e tanta fatica, ma il mio ricordo del Venezuela è di anni felici. Io – come del resto i miei fratelli – mi sposai. Un po’ alla volta mio marito e io riuscimmo perfino a mettere su una piccola azienda agricola che speravamo di poter lasciare un giorno in gestione ai nostri figli.
Per il nostro futuro, abbiamo sempre sognato di tornare in Friuli e trascorrere qui la nostra vecchiaia, lui – spagnolo – si era infatti innamorato di questo lembo di terra in cui si parlava una lingua che gli suonava tanto familiare. E in Friuli siamo rientrati, ma improvvisamente, fuggendo da una violenza inaudita e dopo aver perso gran parte di quanto avevamo costruito. È stato un dolore grande che si è riacceso a ogni nuova crisi. Nel 2017, ad esempio, anno in cui furono in tanti tra i quindicimila friulani ancora preseti nel Paese a rientrare anche grazie all’aiuto della Regione.
Allora l’Ente Friuli nel mondo aiutò, con l’invio di beni di prima necessità, anche chi era rimasto in Venezuela. Un’impresa complicata dal momento che i Fogolars erano stati sciolti dal Governo e la rete di rapporti si era sfilacciata di pari passo con la violenza e la crisi.
Oggi quel dramma si rinnova con la contestata rielezione del presidente Nicolás Maduro, erede di Hugo Chàvez: l’ombra dei brogli sta portando in queste ore nelle strade e nelle piazze scontri e un conflitto che rischia di sfociare in una guerra civile. Uno dei miei fratelli è ancora in Venezuela con la sua famiglia. È – come me – ormai anziano e ha deciso di non lasciare il Paese in cui aveva scelto di vivere. Sono in pena per lui e per le mie nipoti, ma lo sono anche per i Venezuelani, un popolo che ha dovuto patire tantissimo che mi è stato fratello e che conta addirittura sette milioni di rifugiati fuori dal Paese. Con grande coraggio anche i Vescovi del Venezuela hanno chiesto un processo di verifica dei verbali di scrutinio delle elezioni. Sono tante in questo momento le crisi e le guerre che infiammano il mondo, teniamo però alta l’attenzione anche su quello che sta succedendo a Caracas. Servirà anche a noi, per la nostra Europa, come monito. Hugo Chàvez, infatti, nel 1998, imbonì tanti venezuelani impoveriti dalla crisi economica e stanchi dei partiti tradizionali, promettendo di rigenerare la democrazia. Fu un abbaglio, Chàvez seppe essere solo il primo grande populista carismatico del nostro tempo.
Clara Benedetti