La prima volta, nove anni fa, c’era stato uno spintone contro il muro e le mani strette con forza attorno al collo. «Per motivi futili che oggi nemmeno più ricordo». Poi via via un crescendo di violenze, fisiche e psicologiche. «Non si poteva nemmeno parlare, voleva avere sempre ragione; aveva poi iniziato ad avere il controllo su tutta la mia vita, dal conto in banca, nonostante io avessi comunque il mio impiego e la mia retribuzione, al desiderio di uscire qualche volta con le amiche. Mi era concesso una volta al mese. E poi la mancanza di rispetto, gli insulti continui insieme a comportamenti manipolatori, facendomi credere che senza lui non avrei potuto vivere, con un atteggiamento che costantemente aveva l’obiettivo di minare la mia autostima».
In due occasioni Maria (nome di fantasia), 52 anni, friulana residente in una località dell’hinterland udinese, era dovuta ricorrere alle cure del Pronto soccorso per le tante botte ricevute da quell’uomo che aveva sposato per amore e con il quale aveva costruito un progetto di vita, insieme ai due figli (già grandi). «All’inizio noi donne cerchiamo di giustificare la violenza e anche io l’ho fatto, dicendomi che magari era stanco, di malumore…». Ma la vita coniugale in breve diventa un inferno. «Ti ritrovi a vivere nel terrore, non sai cosa ti può succedere e fai di tutto perché non si arrabbi». Pian piano la consapevolezza che l’amore non è possesso e violenza, ma rispetto, si fa strada in Maria. Ed è allora che decide di porre fine al suo matrimonio. «Mi sono affidata a uno sportello antiviolenza che mi ha poi indirizzata al centro “Zero Tolerance” di Udine. La psicologa, l’avvocata, l’assistente sociale e tutte le operatrici sono state la mia salvezza». Maria non mette al corrente il marito della sua decisione. «Chissà cosa mi avrebbe fatto – spiega –; per lui la famiglia doveva essere perfetta agli occhi degli altri. Fuori casa, tra i colleghi, gli amici, il paese, non doveva trapelare nulla, se non l’immagine di una coppia che proseguiva tranquillamente la sua vita». Ma tra le mura domestiche la realtà è ben diversa. «Mi sono affidata a delle professioniste, ed è quello che consiglio alle donne che vivono ciò che ho passato io. Mai fare di testa propria, ma seguire quello che viene indicato dai centri antiviolenza».
Passano i mesi e Maria riesce a mettere da parte il denaro necessario per trovare un alloggio in affitto, per cercare di ricostruirsi una vita finalmente lontano dalle botte. «Ho programmato tutto nei minimi dettagli, poi me ne sono andata». Da quel giorno non si è più voltata indietro anche se, ammette, la decisione è stata costellata da tanti ripensamenti. «Ho persino pensato che lui, così violento, andava aiutato da appositi servizi. Ero consapevole che la mia scelta avrebbe fatto del male a tante persone. Come ai figli. Ancora una volta però mi sono fidata di chi mi stava aiutando. È indispensabile. Come lo è non svelare alcunché alla famiglia, agli amici. È una grande sofferenza anche per te oltre che per chi ti vuole davvero bene, perché all’improvviso scompari, ma è necessario farlo per la tua sopravvivenza, perché, come amo ripetere, chi ti vuole fare del male non lo ha scritto in fronte che può diventare un assassino…».
Per tre mesi la donna rimane in una casa protetta, mentre il marito la cerca dappertutto, anche tramite amici comuni. «È per questo che bisogna sparire senza dire nulla, perché una parola può scivolare e la persona violenta ti trova». Nonostante per lui sia scattato il divieto di avvicinamento, grazie ai referti del Pronto soccorso e la conseguente denuncia alle Forze dell’ordine, Maria vive nel terrore. «E nel lutto, perché per tanto tempo sei costretta a rinunciare a tutto, affetti, lavoro, libertà di muoverti… praticamente vivi in sospeso». Finché la giustizia fa il suo corso e le acque si calmano. Informa i datori di lavoro di quanto le sta accadendo. «C’è stata piena disponibilità a venirmi incontro e non è cosa scontata, come non è scontato essere creduta quando denunci o vai a farti medicare in ospedale». Per caso, leggendo una rivista femminile, viene a conoscenza dell’esistenza di un’indennità per le donne vittime di violenza. «Nessuno lo sapeva, nemmeno all’Inps, ma è importante per la propria autonomia poter contare sul fatto che lo stipendio continui ad arrivare».
Poi il rientro al lavoro e il tentativo di tornare alla normalità. «Non è facile, perché devi cambiare le tue abitudini, persino le strade consuete non le devi più percorrere, ma cercare alternative per la spesa, il lavoro… Insomma, non devi mai abbassare la guardia. Ma se ne esce e io sono un esempio del fatto che le donne possono sfuggire alla violenza e salvarsi la vita, anche se è stata dura, tanto dura…», sottolinea con commozione. E aggiunge: «Non bisogna mai smettere di credere in se stesse, è necessario chiedere subito aiuto quando si subisce una violenza ed essere presenti con lucidità a tutto il percorso proposto dai centri preposti, senza tentennamenti e senza farsi intenerire quando un compagno violento ti fa credere che se te ne vai lui non vive senza te…».
Oggi Maria si è costruita una nuova vita. «Dopo nove anni ho chiuso definitivamente quel capitolo di grandi sofferenze che per fortuna rimane un brutto ricordo che inizia a sbiadirsi. Pian piano ho ritrovato anche le vecchie amicizie. Dal punto di vista finanziario non ho voluto che mi venisse riconosciuto nulla. Ho lasciato la casa dove avevo riposto tutti i miei sacrifici e i miei risparmi, non ho chiesto gli alimenti, nulla di nulla, perché la libertà non ha prezzo… Oggi mi sento forte, rinata per la seconda volta. Quando incontro la psicologa, l’assistente sociale o l’avvocata di “Zero Tolerance” le abbraccio forte: è il segno della mia gratitudine per questa seconda vita…».
Monika Pascolo