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L'editoriale

Guardie sul confine

Qualche giorno fa a Nova Gorica si è tenuto un concerto gratuito di Baby Lasagna, il cantante di Umago secondo classificato all’Eurovision song contest. Si è trattato di uno degli eventi pensati in preparazione alla Capitale europea della cultura, il cui clou verrà raggiunto l’anno prossimo, il 2025.

Il livello raggiunto nella collaborazione transfrontaliera sembrerebbe idilliaco, se non che, al ritorno dall’esibizione, il pubblico italiano ha trovato valici confinari in cui sono stati ripristinati da qualche tempo posti di blocco e polizia, a ricordare che i propositi dichiarati non vengono necessariamente accompagnati da politiche coerenti.

L’Italia ha sospeso Schengen riattivando selettivamente i controlli al confine con la Slovenia fin dal 21 ottobre 2023. La motivazione ufficiale è stata contrastare l’immigrazione e il rischio terrorismo legato al conflitto israelo-palestinese. Nella pratica, i controlli si traducono in deviazioni stradali e passaggi obbligati davanti a container presidiati da agenti che solo di rado effettuano controlli, esercitando una funzione per lo più simbolica. Sarebbe stato eventualmente più efficace rafforzare i controlli ai confini esterni dell’Unione Europea (Croazia, Bulgaria, Romania, Ungheria, Slovacchia e Polonia) anziché riattivare frontiere tra Stati membri di antica memoria. In ogni caso, è difficile pensare che tal genere di controllo possa intimidire agenti russi e terroristi arabi, dal momento che si risolve in un superficiale screening dei documenti di identità.

Da ultimo pochi giorni fa, il 16 settembre, sono scattati controlli ai confini della Germania. Come anche nel caso italiano, è difficile evitare l’impressione che dietro alla misura si celino esigenze di politica interna. Nel caso specifico, si tratterebbe di assecondare le pulsioni di un elettorato in cui cresce la propensione per politiche sovraniste di destra (Alternative für Deutschland) e sinistra (Bündnis Sahra Wagenknecht).

Il paradosso in Germania è ancora più evidente che da noi. Politiche di chiusura vengono promosse da un governo progressista minacciato dall’avanzata delle proposte estremiste, ma il successo di quei partiti deriva in gran parte da scelte sbagliate impostate negli ultimi decenni. Il larvato sostegno alla Russia di Putin e all’Ungheria di Orban in cambio di tornaconti economici, e politiche energetiche poco lineari sono giunti al capolinea con i drammatici sviluppi degli ultimi anni.

E così sono tornate le guardie (soprattutto) sulla vecchia cortina di ferro. Non sorvegliano più masse di persone anelanti una vita più libera e agiata: oggi la disoccupazione in Polonia è la metà di quella tedesca, nonostante il Paese abbia accettato di ospitare milioni di profughi ucraini. Il ritorno dei confini offre invece semmai una soddisfazione simbolica ad un Occidente europeo in cui benessere e stabilità politica si fondano su precari equilibrismi – si pensi alle recenti elezioni in Francia e Inghilterra. Di certo schierare i militari offre una risposta più immediata che ripensare i propri modelli di sviluppo economico e di welfare. Ma per quanto tempo funzionerà ancora?

Di certo, al di là delle code e dei rallentamenti, dalle nostre parti fa male rivedere posti di blocco lungo quello che scelte lungimiranti di governi di altro respiro, a partire dalla seconda metà degli anni Cinquanta, avevano reso il più aperto tra i confini tra le due Europe.

Federico Tenca Montini
Ricercatore associato all’interno del progetto Open Borders, presso il Centro di ricerche scientifiche Capodistria. Il progetto, finanziato dal Consiglio europeo della ricerca, è incentrato sulle pratiche di collaborazione attraverso il confine italo-jugoslavo durante la Guerra fredda

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