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Il Vescovo carnico Tito Solari da 50 anni in Bolivia: «C’è ancora tanto da fare»

Da decenni tra Friuli e Bolivia c’è un filo diretto di contatti, amicizie, legami che si radicano in una comune fede. A dire il vero, più che un filo è un vero e proprio intreccio di vite e storie che si perdono nei decenni, tempi passati che si rendono attuali. A proposito di tempo, uno dei primi nodi di questa rete è un uomo nato nel 1939 a Pesariis, cuore della Carnia e della “Valle del tempo”. Tito Solari Capellari è figlio di uno dei fratelli che guidava la celebre azienda che oggi esporta i suoi prodotti in tutto il mondo. Solari è un cognome molto noto là in Bolivia, dove Tito è religioso salesiano, sacerdote, Vescovo missionario. E lo è da ben cinquant’anni. Per celebrare la ricorrenza, nei giorni scorsi mons. Solari è rientrato in Friuli per un breve soggiorno assieme al Vicario apostolico di Pando, nel nord della Bolivia, mons. Eugenio Coter: oggi, mentre leggete queste righe, i due Vescovi sono già rientrati in Bolivia dove, come ha detto mons. Solari «c’è tantissimo lavoro da fare». Alla faccia dei suoi 85 anni. Radio Spazio ne ha raccolto la testimonianza, la voce ferma e calma con un singolare accento tra il carnico e lo spagnolo.

Mons. Solari, ricorda la sua infanzia a Pesariis?

«Sono nato il giorno dopo l’inizio della seconda guerra mondiale. Ricordo molto bene i carri armati che entravano in Val Pesarina e quando ci hanno buttati fuori casa. Grazie a Dio avevamo sia il papà che la mamma: il papà ha dovuto poi nascondersi nei boschi. L’affetto dei genitori verso di noi è stato così forte che ci ha nutriti di uno spirito particolare. Un dono di Dio tra i più preziosi nella mia formazione.»

Cosa è successo poi? Come è diventato religioso e missionario?

«Ho studiato 5 anni con i salesiani a Tolmezzo. Un giorno il mio confessore mi ha chiesto “Tito, hai mai pensato di farti salesiano?” Risposi di no, ma lui incalzò: “perché non ci pensi?”. Ci ho pensato molto, ogni sera pregavo in ginocchio davanti al letto. Pensavo a cosa significasse essere salesiano, il senso di una chiamata… però ne sentivo anche altre di chiamate: alla famiglia, all’industria degli orologi, sognavo di impiegare i miei compagni nella nostra fabbrica.»

Una vocazione non semplice da discernere…

«Ho capito che c’erano cose diverse: è più importante dare la vita agli orologi o ai giovani? Vocazione è questo, infatti: dare la vita. È più importante sentire le inclinazioni o fare scelte che hanno dei valori? Un giorno tornai da quel confessore chiedendo cosa fosse la vocazione: un’inclinazione o una scelta. Se mi avesse detto che è una scelta, mi sarei fatto salesiano e così è stato.»

La sua famiglia, che aveva una “vocazione industriale”, come apprese la sua decisione?

«Ho sofferto molto con il papà, perché lui aveva sogni su di me. In più era anticlericale e non entrava mai in chiesa. So che la mia decisione l’ha sconvolto, però è stato un grandissimo papà: quando gli ho detto che avrei avuto bisogno del suo permesso, lui mi rispose “Tito, tu sai che io non voglio, ma so che non cambierai idea. Ti ho educato alla libertà e rispetto la tua decisione.” Queste parole di mio papà mi hanno accompagnato tutta la vita. Sono stato fortunato ad avere un papà così.»

E come è diventato missionario?

«Ho studiato a Verona, Torino, Roma. Sono stato consacrato sacerdote a 27 anni. In una di quelle tappe ho pensato seriamente a cosa avrei risposto se i superiori mi avessero chiesto di andare in missione. Mi sono detto che se l’avessero chiesto, nel nome del Signore avrei detto di sì. Quel giorno arrivò a 34 anni: giocavo a pallacanestro, il superiore mi chiamò e mi chiese se ero disposto a partire per la Bolivia. Risposi di sì immediatamente, tanto che lui rimase di stucco. Ero anche sicuro che i miei genitori non l’avrebbero presa bene, infatti mio padre tagliò i rapporti con me. Mi disse: “Tito, questo non lo capisco e non posso accettarlo”.»

Dev’essere stato doloroso non avere il supporto della famiglia…

«I primi 6 anni in Bolivia non ho avuto contatti con mio padre: gli scrivevo ma non mi rispondeva. Finché un giorno venne a trovarmi assieme a mia madre, convinto da un mio cognato. Stette con me tre mesi. Un giorno, davanti alla chiesa di cui ero parroco, mi disse: “Vedo che la gente ti vuole bene e che sei davvero felice. Si vede che questa era la tua strada”. Da quel giorno mio papà ha cambiato vita e si è avvicinato al Signore. Ed era felice di aver avuto un figlio così.»

Mons. Solari, com’è rivedere Pesariis, il paese in cui è nato?

«Sono stato qui diverse volte in questi cinquant’anni e ho visto i cambi che ha vissuto la società, in particolare lo spopolamento dei paesi. Da un lato sono felice di rivedere le montagne (da giovane “le ho fatte tutte”!), ma c’è anche un sentimento di pena perché non c’è più tutta la vita che c’era un tempo.»

E come è stato andare dall’altra parte del mondo, in Bolivia?

«Ne ho combinate di tutti i colori! Prima sono arrivato in una zona di colonizzazione, al limite della foresta, dove la gente riceveva dal governo 50 ettari di foresta. Ho vissuto lì 7 anni vedendo cose belle, gente giovane che con speranza iniziava una nuova vita. Poi sono stato eletto superiore dei salesiani della Bolivia. Ho sperimentato la fraternità, essendo “padre” di molti fratelli che danno la vita per i giovani. Il Signore ci ha benedetti con molte vocazioni, ma non c’era “grasso”: poche medicine, nessun cibo speciale, confratelli consumati nel servizio gioioso.»

Nel 1987 fu nominato Vescovo…

«È stato diverso perché non avevo più il contatto diretto con i giovani. Ho fatto 12 anni a Santa Cruz come ausiliare, poi 15 anni a Cochabamba, dove il clero era numeroso e c’erano oltre cento case di formazione. Il mio impegno era di seguire tutti questi gruppi in modo che la vita che veniva dai giovani desse frutto maturo per servire le altre zone del paese.»

Da dieci anni è vescovo emerito. Di cosa si occupa ora?

«Sono in un posto nuovo, a Pando, una missione in Amazzonia nell’estremo nord della Bolivia. Una zona grande una volta e mezzo la Svizzera, con poca gente e una cittadina di 60mila abitanti. Lì stiamo fondando un’opera per bambini e giovani abbandonati, con l’obiettivo di dare loro una speranza tramite l’insegnamento dei mestieri e l’annuncio del Vangelo. Pensiamo che in quelle terre la Chiesa istituzionale è arrivata solo nel 1942 e la strada per giungere in quella città è stata costruita appena 33 anni fa: siamo in una terra diversa, con valori, mentalità, stile di vita differenti. Chi viene dalla foresta vive ancora di raccolta, caccia e pesca. È un mondo nuovo, con cuori aperti che rispondono con gioia e speranza. Là non c’è ancora nulla, bisogna costruire tutto, persino la casa delle suore. Il lavoro non manca.»

Sente la stanchezza?

«Ma per l’amore del cielo! (ride, ndr) Sento di essere anziano: le gambe, l’udito, la memoria non sono più quelli di un tempo. Ma nessuno può abbandonare quei ragazzi e lasciarli nelle condizioni in cui vivono. Non si può, non si deve!»

Cosa le lasciano questi cinquant’anni di missione?

«Sento che il Signore mi ha dato la grazia di realizzarmi anche umanamente, in tutti i sensi. I superiori non potevano darmi occasioni migliori. La vita mi ha dato tanto, ringrazio tutti i giorni il Signore e le persone che ho avuto accanto.»

Giovanni Lesa e Valentina Pagani

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