Prima un passo e poi un altro. E poi un altro ancora. Ce la immaginiamo così la partenza di un pellegrino. Uno che nel medioevo va a Roma, forse, o a Santiago di Compostela, o tenta di arrivare fino a Gerusalemme. Ma in qualche modo parte così come partirebbe ognuno di noi: un passo dopo l’altro appunto.
Nel medioevo fa differenza se sei ricco o sei povero, anche se le strade da attraversare e le mete da raggiungere sono sostanzialmente le stesse. Il povero parte a piedi e si è preparato a lungo nelle settimane precedenti: se aveva dei nemici si è rappacificato, se aveva qualche debituccio l’ha saldato, si è congedato dai familiari e dagli amici col cuore a pezzi, le lacrime a rigare il volto e il timore di non farcela. Ha predisposto lo spirito, ma anche il corpo: si è fornito di un bel cappellaccio a falde larghe, per ripararsi dal sole cocente o dalla pioggia, di un mantello di lana; di una borraccia ricavata da una zucca svuotata per l’acqua; di un bastone – il “bordone” – per agevolare il passo; di una borsa di tela – la “scarsella” – per portare i pochi averi che potranno essergli utili. E poi è partito!
Quando porti addosso quei segni è un po’ come avere una divisa che ti rende riconoscibile: un abito che chiede rispetto, benevolenza, empatia. Stai dicendo a chi ti incontra: “Aiutatemi, se potete, non trattatemi male, sto compiendo un’azione santa”. C’è chi parte per adempiere ad un voto, chi per espiare un crimine, per ottenere un’indulgenza, per sé o per i propri cari; chi perché spera di guarire da una malattia, o che guarisca un figlio, una moglie; chi, forse, solo per disperazione. Non è in fondo il cammino una metafora della fede? Un andare avanti passo dopo passo. Coltivando la fiducia, alimentando la speranza, gestendo la fatica.
I pellegrini nel medioevo sono considerati tutto sommato dei marginali. Non in quanto tali, ma in virtù dello status sociale che acquisiscono nel momento in cui si mettono in strada, affidando così il loro destino all’insicurezza. Oggi ci sono i “cammini” ufficiali, le guide turistiche, il gps, Google maps… All’epoca ti dovevi fidare, soprattutto quando uscivi dal territorio noto.
Anche a causa della loro marginalità, non sono molte le immagini che ritraggono i pellegrini del medioevo. Per questo l’immagine del patriarca Bertrando che dona il pane ai poveri e ai pellegrini – di cui si può vedere l’originale nel Museo del Duomo di Udine – è emblematica: il pellegrinaggio, infatti, non coinvolge solo chi va “per agros” ma l’intera comunità cristiana, che vive e condivide quell’esperienza individuale come se fosse un’esperienza collettiva, che coinvolge e interroga tutti. Bertrando dà, ma dà appunto a nome di tutti.
I pellegrini medievali sono animati da un grande coraggio – le strade, anche le più frequentate, sono insicure: qualcuno ha addirittura fatto testamento prima di partire – ma soprattutto dal desiderio ardente, esclusivo di giungere alla meta, adempiendo alla promessa solenne che hanno pronunciato alla partenza. Hanno paura, ma vanno. A fiumi vanno.
E andavano da secoli, già prima dell’indizione del Giubileo del 1300. E, aggiungo, andavano e vanno ancor oggi coloro che seguono le religioni più diverse: in direzione di templi, santuari, città sante, ad ascoltare oracoli, buone novelle, o anche solo il vento. Fosse la meta il tempio di Apollo a Delfi, la “sacra foresta” di Uppsala in Scandinavia o le “vie dei canti” degli aborigeni di cui ha scritto Bruce Chatwin…
I cristiani hanno sempre creduto che l’Incarnazione sia un fatto reale, che i santi siano persone autentiche, fatte di carne e di ossa. E che il contatto con i luoghi e con ciò che resta di quei corpi non sia semplicemente un rito magico, sciamanico, ma un tornare alle fondamenta di un’identità, alla prova provata, materiale, concreta che esiste una verità. Il pellegrino perciò si rende testimone autentico della storia della salvezza: vuole vedere e toccare, e facendo ciò riconosce gli altri che camminano con lui come fratelli.
Nell’andare si è fatto povero, penitente, ha sospeso il tempo della vita, delle cose e degli affari, ha assunto un atteggiamento di sobrietà, portandosi dietro solo l’indispensabile. Ha capito, camminando, che nulla è suo e tutto è di Dio. È un po’ il senso dell’antico Giubileo, quello di cui parla il capitolo 25 del Levitico: la terra riposerà, gli schiavi saranno liberati, i debiti condonati. Perché tutto, ad un certo punto, ritorna a Lui.
Le motivazioni che nell’anno di grazia 1300 hanno animato il primo Giubileo cristiano, indetto da papa Bonifacio VIII, magari non saranno state proprio sublimi, almeno nell’intenzione del papa e della curia. Quel pontefice non è passato certo alla storia per la sua spiritualità! Ma la scelta in sé è stata profetica: concentrare in un evento straordinario i percorsi e le attese di salvezza di tanti uomini e donne che si sono fatti e si fanno pellegrini. Mettendo in un certo modo ordine, riconoscendo un valore teologico profondo in quell’andare verso la tomba di Pietro.
Le cronache trecentesche sono curiose: ci raccontano di una Roma travolta dai pellegrini, che dormono e bivaccano ovunque, coi prezzi saliti alle stelle e una permanente penuria di generi alimentari. E addirittura – lo scrive uno come Dante che la cosa pare averla vista con i propri occhi – con la necessità di regolare il traffico intenso nei punti critici di passaggio. Descrivendo nel canto XVIII dell’Inferno la confusione delle bolge demoniache, il Divin Poeta la paragona infatti alla confusione che ha visto durante l’anno del Giubileo a Roma, quando sul ponte Sant’Angelo, a due passi da San Pietro, si dovette addirittura intervenire con delle transenne per separare chi andava da chi veniva.
Alla meta infine, se non si perde, il pellegrino ci arriva: la sua speranza è ripagata. Non sente più la fatica, le gambe ritornano leggere, le disavventure sono dimenticate, i mesi e gli anni trascorsi contano ormai come giorni e minuti, lo sguardo abbraccia e contempla la fine del percorso, la città, il santuario ormai raggiunto. Già, ogni tanto però ci si dimentica che il pellegrino deve anche tornare indietro e al ritorno dovrà fare altrettanta strada quanta ne ha fatta nell’andata. Ma porta con sé un messaggio potente: ha visto, ha toccato con mano, può testimoniare, ha sperimentato la grandezza di Dio, l’immensità del suo creato, la potenza del suo perdono.
Luca De Clara