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«Non abbiate paura» è il tema della 25ª Giornata di preghiera e digiuno in memoria dei Missionari martiri che si celebra in tutto il mondo il 24 marzo. Anche la Chiesa udinese ricorderà i missionari uccisi nel corso del 2016 con una veglia che si terrà venerdì 24 marzo, alle ore 20.30 nella chiesa di Pagnacco, e che sarà presieduta dal vescovo friulano mons. Diego Causero, nel suo servizio alla chiesa già Nunzio apostolico in Ciad, Repubblica centrafricana, Congo, Siria, Repubblica Ceca, Svizzera e Liechtenstein.
A portare, invece, la sua testimonianza sarà suor Angela Bertelli, della Congregazione delle missionarie di Maria, che fu rapita e tenuta in prigionia, in condizioni estreme, per 56 giorni nel 1995, in Sierra Leone, insieme a sei consorelle da un gruppo di guerriglieri del RUF (fronte unito rivoluzionario). Tra le sue opere va ricordato che fondò, nel 2008 in Thailandia, il centro «La Casa degli angeli» per la riabilitazione di bambini con handicap gravi e l’affiancamento alle loro madri.
Durante la celebrazione verrà data lettura del martirologio, ovvero dei nomi di coloro che nel mondo, nel 2016, hanno perso la vita nello svolgimento della loro opera pastorale. Secondo le informazioni raccolte dall’Agenzia Fides, nel 2016 sono morti in modo violento 28 operatori pastorali: 14 sacerdoti, 9 religiose, 1 seminarista, 4 laici. Nello specifico in America sono stati uccisi 12 operatori pastorali (9 sacerdoti e 3 suore); in Africa 8 (3 sacerdoti, 2 suore, 1 seminarista, 2 laici); in Asia 7 (1 sacerdote, 4 suore, 2 laici); in Europa 1 sacerdote.
Ma perché il 24 marzo? Perché il 24 marzo del 1980, mentre celebrava l’Eucarestia, venne ucciso monsignor Oscar A. Romero, vescovo di San Salvador nel piccolo stato centroamericano di El Salvador. La celebrazione annuale di una Giornata di preghiera e digiuno in memoria dei missionari martiri, il 24 marzo, prende ispirazione da quell’evento sia per fare memoria di quanti lungo i secoli hanno immolato la propria vita proclamando il primato di Cristo e annunciando il Vangelo fino alle estreme conseguenze, sia per ricordare il valore supremo della vita che è dono per tutti. Fare memoria dei martiri è acquisire una capacità interiore di interpretare la storia oltre la semplice conoscenza.
Ecco una anticipazione della testimonianza di suor Bertelli, nell’intervista di Valentina Pagani e Valentina Zanella per “la Vita Cattolica”
«Ci hanno fatte camminare sei giorni e mezzo senza quasi fermarci, solo un poco la notte, e assistendo ad atrocità in continuazione. Eravamo sette suore, catturate da un giorno all’altro e con noi molti giovani. Abbiamo visto crudeltà di ogni genere, persone bruciate vive, abbiamo visto uccidere anche i giovani rapiti con noi, li trasformavano in schiavi per addestrarli a loro volta come ribelli, gli rasavano i capelli e chi si opponeva finiva male. Vedere questi ragazzi uccisi davanti ai tuoi occhi con ferocia inaudita, ti fa capire che questa ferocia non è neanche più d’uomo, ma demoniaca. È il male impersonificato… in ragazzi di neanche di 22, 23 anni. In quei momenti ti chiedi come si può sopportare tanto, cosa ci stiamo a fare qui, noi suore».
Suor Angela Bertelli, delle missionarie di Maria, racconta con la voce rotta quei lunghi giorni – 56 – e il dolore vissuto durante il rapimento, in Sierra Leone, nel 1995. La sua straordinaria testimonianza di fede fino al dono della vita sarà la riflessione centrale della Veglia diocesana per i missionari martiri che quest’anno si terrà nella parrocchia di Pagnacco, venerdì 24 marzo, alle 20.30. Originaria di Carpi in provincia di Modena, 58 anni, un diploma di ragioneria, poi gli studi per diventare infermiera, dopo un periodo negli Stati Uniti, ad Harlem – dove ha imparato l’inglese, operato con i centri di aiuto alla vita e studiato come fisioterapista –, suor Angela è partita per l’Africa. In Sierra Leone ha vissuto due anni intensi, lavorando in un centro per bambini disabili, soprattutto poliomelitici, anni interrotti bruscamente dal rapimento, il 25 gennaio del 1995.
Suor Angela, perché rapire delle suore?
«I ribelli erano una sezione staccata dell’esercito. Operavano in prima linea e non venivano più pagati, così sono insorti contro il governo. È iniziata come una guerra civile, ma c’è chi ha parlato di un moto di destabilizzazione che coinvolgeva tutta l’Africa occidentale, probabilmente finanziato dall’esterno, dalla Libia di Gheddafi. In 7 di noi, sorelle, ci siamo trovate nella mischia. Hanno catturato persone straniere perché sapevano che solo così avrebbero attirato l’attenzione».
Come avete vissuto in quei 56 giorni?
«Abbiamo visto atrocità terribili. Avremo passato oltre 50 villaggi, e in tutti i ribelli aprivano il fuoco, uccidevano chi resisteva. Ho avuto la tentazione di provare a scappare nei campi di erba alta, anche la tentazione di dire: “Signore, fammi morire piuttosto di vedere queste cose…”. C’è stato anche un momento in cui hanno preso di mira noi suore, credendoci spie. Ci avevano perfino preparate per la fucilazione…».
Cosa si prova in quei momenti?
«Pensi che sei partito in nome del Signore, per aiutare della povera gente e tutto ti sembra assurdo. Poi capisci di trovarti proprio agli estremi confini della terra, dove l’uomo ha perso se stesso, ha perso Dio e l’umanità. E capisci che quello è il posto più giusto dove essere come missionaria. Capisci che è lì che puoi offrire tutta te stessa. Alla fine non avevamo quasi più paura. Il dono della vita è niente… Se solo servisse per la pace».
Oltre ad aver rischiato la fucilazione siete state ridotte allo stremo da malattie e stenti…
«Sì. Mangiavamo appena qualcosa. Ci arrivava anche cibo putrefatto perché i ribelli rubavano da mangiare e a noi lasciavano i resti. Spesso non c’era nemmeno l’acqua. Molti di noi avevano vomito, diarrea, malaria. Non c’erano ovviamente cure. Alcune sorelle non riuscivano a stare in piedi. Pensavamo che sebbene non ci avevano ancora uccise saremmo morte di stenti. Era proprio impensabile la liberazione, fino a un giorno prima…».
Come vi siete salvate, invece?
«Il vescovo locale era rimasto l’unico interlocutore accettato dai ribelli. Loro volevano un riscatto ma lui tenne una linea dura. Chiese il rilascio per motivi umanitari e loro probabilmente avevano fretta di arrivare alla capitale, erano sicuri di vincere e non volevano apparire come criminali. Si sono accordati nel giro di un giorno e una notte. Un’operazione rischiosissima che avrebbe potuto trasformarsi in carneficina. Per il governo prenderci vive o morte sarebbe stato lo stesso».
Durante questi giorni di prigionia si è mai chiesta: Dio c’è? Dov’è?
«Dio era lì con noi, in croce. In quei ragazzi, in quelle famiglie spaccate. In quei bambini che a 4 anni si ritrovavano ad essere presi, con il papà e la mamma ammazzati. Dio era presentissimo. Anzi, in quei momenti ci si aggrappa a Dio e alla Madonna, perché preghi per noi che siamo niente, povera gente. Noi che non abbiamo idea di cosa sia la vita, di cosa ci ha messo nelle mani Dio, quale bellezza. Noi che riduciamo tutto a un disastro».
Ma non è finita. Dopo la liberazione, tornata in Italia per riprendersi, si è rimessa subito in corsa e nel 2000 era in Thailandia. Tutto un altro mondo?
«Per me sì, del buddismo non sapevo niente. All’inzio ero in una missione nel nord, poi ho chiesto di stare per un periodo nelle baraccopoli della capitale, Bangkok. “Gesù tu sei stato tanto per me”, mi dicevo. “Come fa questa gente che non ti conosce a volerti bene?”. E stavo con loro, a prendermi cura degli ultimi, i malati di Aids, quelli che nessuno voleva più nemmeno gli ospedali».
È nata così la Casa degli angeli? Di cosa si tratta?
«È un luogo di accoglienza per bambini disabili e le loro mamme, che arrivano da storie incredibili, donne vittime di violenza, soprattutto. Le stesse mamme hanno iniziato a prendersi cura non solo dei loro bimbi ma anche di quelli abbandonati e disabili, una cosa incredibile nel buddismo, perché per loro la malattia è il karma per il male fatto in una vita precedente. Eppure, queste donne hanno saputo affrontare prima la difficoltà di accettare il proprio bimbo, poi di condividere i loro dolori, le sofferenze, le lacrime… Diverse tra loro sono diventate cristiane. Ora convivono buddiste e cristiane insieme e si aiutano per dare una famiglia a questi bambini. È una grazia enorme che solo il Signore può aver seminato. Io ho cercato di annaffiarla il più possibile con la Parola di Dio e il lavoro».
Suor Angela, adesso si fermerà in Italia?
«Per qualche anno sicuramente. Mi hanno chiesto di assistere le consorelle anziane ammalate, a Parma. Lo faccio volentieri, hanno tutte speso la loro vita in missione, adesso è il periodo della fragilità, delle malattie. Ci aiutiamo insieme. Quel che mi attende in futuro solo il Signore lo sa».
Valentina Pagani e Valentina Zanella