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La nuova storia di Porzûs di Piffer. Presentazione a Udine e Cividale

«Una storia del ‘900 semplice nella sua brutalità, dove si elimina l’avversario visto come ostacolo alla realizzazione di uno scopo politico». Così lo storico Tommaso Piffer riassume il suo ultimo volume “Sangue sulla Resistenza. Storia dell’eccidio di Porzûs” (Mondadori, 2025, pp.260, 23 euro).

Il libro sarà presentato a Udine alle ore 18.00 di sabato 22 febbraio presso il Centro culturale alle Grazie (via Pracchiuso 21) con la collaborazione dell’Università di Udine e l’Associazione Friuli Storia. Interverrà con l’autore Andrea Zannini. La seconda presentazione si terrà a Cividale, giovedì 27 febbraio, ore 18.30, nella chiesa di Santa Maria dei Battuti organizzata dall’amministrazione comunale e della biblioteca civica, con la presenza insieme all’autore di Paolo Mosanghini. Ingresso libero salvo esaurimento posti.

Una vicenda cui Piffer, da storico di vaglia, riesce a dare finalmente una visione complessiva collegando tutti i dati a disposizione e avvalendosi di documenti inediti come i due verbali del Comitato provinciale del Partito Comunista Sloveno e dell’Ozna conservati nell’Archivio di Stato di Lubiana, riconsiderando documenti noti, gli atti processuali dal 1945 al 1960, la campagna di disinformazione per coprire le responsabilità del Pci.
Varrebbe forse la pena di iniziare a leggere il libro iniziando dalla conclusione per passare poi all’introduzione, che inizia in modo letterario, “in medias res”, con don Aldo Moretti, uno dei fondatori dell’Osoppo, alla ricerca dei 14 osovani assassinati in una zona di confine imbattendosi in un muro di silenzio, fatto di paura. «Ci fu – dice Piffer – un’omertà totale: delle 100 persone che parteciparono all’assalto di Porzûs, 43 furono processate, ma degli altri 60 non sappiamo nulla, nessuno in 80 anni ha mai rotto il muro omertoso».
L’eccidio di Porzûs si inserisce in un contesto globale che già nel settembre 1943 vide il movimento di liberazione jugoslavo, dominato dal partito comunista, rivendicare l’annessione dei territori di confine con minoranze slovene e territori non sloveni, ma strategici, come Trieste. Una rivendicazione sulla linea del nazionalismo ottocentesco che si saldò con la volontà politica di espandere la rivoluzione socialista e si concretizzò con l’invio di truppe partigiane nel territorio di confine per rendere inevitabile l’annessione al regime di Tito.
Quando anche in Italia nacque la Resistenza, si rinviò la definizione del confine alla fine del conflitto per far fronte comune al nemico, ma nell’estate 1944 Tito fu riconosciuto da Churchill e temette che le truppe occidentali occupassero la Venezia Giulia e la Benecia impedendone l’annessione alla Jugoslavia. Il Partito comunista sloveno ordinò ai partigiani italiani di passare alle dipendenze del IX Corpo jugoslavo spaccando così la resistenza.
Francesco De Gregori, comandante dell’Osoppo, rifiutò, rendendosi conto che ciò sarebbe stato funzionale all’annessione alla Jugoslavia, ma il movimento di liberazione sloveno impose alla divisione Garibaldi Natisone, comunista, la scelta tra la difesa degli interessi nazionali italiani e quella di sostenere la rivoluzione socialista aiutando l’annessione, una decisione che nessun altro comunista aveva dovuto prendere in Italia.
Come dimostrano i già ricordati verbali delle riunioni del Comitato del Partito comunista sloveno e della polizia segreta di Lubiana, pubblicati in appendice del libro e a cui parteciparono i comandanti della Natisone, Piffer scrive che «la documentazione disponibile…non lascia alcun dubbio. Il comando della Natisone non solo acconsentì, ma pianificò un’azione militare che prevedeva l’eliminazione fisica di tutti i partigiani osovani…ed è al comando della Natisone che si deve ricondurre la genesi dell’operazione e il clima di odio che la rese possibile». Forse addirittura con un supplemento di brutalità rispetto ai documenti sloveni in cui non mancano inviti alla cautela nella consapevolezza delle conseguenze internazionali della vicenda.
Fu una scelta ideologica per favorire la rivoluzione socialista, inserendo l’eccidio di Porzûs nell’ambito più vasto di uno scontro globale con diramazioni in tutta Europa. L’eccidio compiuto dai Gap (Gruppi d’azione partigiana) di Mario Toffanin integrati con elementi della brigata Gramsci, deciso nel novembre 1944, fu differito al 7 febbraio 1945 accompagnato da una campagna diffamatoria contro l’Osoppo, che continuò anche nel dopoguerra scaricando le colpe sui Gap, inseriti nella Natisone, e poi sugli jugoslavi.
Scrive Piffer che «l’eccidio di Porzûs non va ricondotto solo alla storia del confine orientale, ma anche alla storia del Partito comunista italiano e della sua transizione dalla prospettiva insurrezionale a quella democratica. Alle malghe di Porzûs si sovrapposero le tre grandi fratture che hanno segnato tutta la storia del Novecento in Europa»: la lotta tra fascismo e antifascismo, la frattura nazionale tra italiani e sloveni per il controllo dello stesso territorio e quella ideologica tra forze comuniste e anticomuniste.
Interessante la metodologia usata da Piffer che, grazie alla collaborazione con gli storici sloveni e in particolare Nevenka Troha, ha cercato di comprendere anche umanamente il rapporto difficile tra italiani e sloveni studiando «una storia terribile – osserva – dove ognuno ha cercato di avanzare la sua posizione spesso calpestando l’altro e che noi dobbiamo esaminare, prima ancora di giudicare e di condannare, con una prospettiva serena, sapendo che il male è nell’uomo e che questa è una storia tragica, dove ognuno ha fatto male all’altro più che poteva, con diversi gradi di brutalità».
Possiamo dopo 80 anni considerare chiusa la vicenda? «No – risponde Piffer –. La storia è sempre suscettibile di revisioni. Molti dettagli non sono noti e forse non lo saranno mai, anche se a mio parere il senso storico e politico della vicenda è chiaro. Potremo consegnare l’eccidio di Porzûs al passato a due condizioni: la prima è dire la verità, non c’è verità senza giustizia e riconciliazione senza verità. La seconda è sottrarre la storia alla politica, che da una parte e dall’altra la usa come strumento di lotta lacerante».

Gabriella Bucco

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