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L'editoriale

La pace non è calcolo

Lo dobbiamo ammettere: da cultori della geopolitica da divano, ci stiamo abituando a immaginare la pace come il risultato dei calcoli della diplomazia, come un punto di precario equilibrio tra forze economiche e militari. All’alba del 2025, mentre non cessa il fracasso delle bombe e gli esperti si chiedono se sarà l’anno buono per le tregue e i cessate il fuoco, nel messaggio per la LVIII Giornata Mondiale della Pace il Papa non ci offre un’analisi politica, ma un itinerario spirituale e biblico che invoca concreti gesti di conversione e rinnovamento personale, ecclesiale, sociale. La pace è la meta e la speranza il cammino, di cui il giubileo ci fornisce la chiave di interpretazione.

Convocato, secondo la tradizione biblica, ogni 50 anni, il “giubileo” era un anno speciale in cui ripristinare un rapporto giusto nei confronti di Dio, tra le persone e con la creazione. Comportava la remissione dei debiti, la restituzione dei terreni ai loro proprietari originari, il riposo della terra. Diceva dell’inseparabilità di spiritualità ed economia; era un’ammissione dell’inevitabile e ciclico deterioramento dei rapporti tra gli uomini e allo stesso tempo della necessità di un anno di condono in cui ritornare alla verità delle relazioni in cui si schiude il senso della vita umana: quella verticale con Dio e quella orizzontale con i fratelli e la casa comune, che sono le coordinate in cui si danno le condizioni per un’autentica pace.

Il suono del corno (yobel) che nella Bibbia inaugura il giubileo, ci suggerisce Francesco, è oggi il «grido dell’umanità minacciata», l’anelito di giustizia che sempre sale dal cuore degli uomini e delle donne. Il primo passo verso la pace è quindi un ascolto autentico, una presa di consapevolezza delle «sfide sistemiche» e delle «strutture di peccato» che si celano dietro i conflitti e le divisioni.

Il passo successivo è il cambio di mentalità che avviene in chi matura un’autentica coscienza del fatto che «siamo tutti debitori». Al fondo di ogni ingiustizia, di ogni rapporto che si rompe, del potere esercitato in modo indebito e disumano, sembra esserci infatti un oblio: dei doni che Dio offre a ogni uomo (la destinazione universale dei beni), del perdono che ognuno di noi, in qualche modo, ha ricevuto, un venir meno della gratitudine. Una dimenticanza che ci autorizza a sentirci in credito, con la vita, con gli altri, con Dio; ma anche tra gli stati, tra le generazioni, dentro le famiglie, verso chi non ha nulla e invoca il nostro aiuto, con le prevaricazioni e gli esiti drammatici (le guerre) e talvolta perversi (pensiamo a certe logiche finanziarie) che ci sono fin troppo  noti.

L’ascolto autentico delle sofferenze degli altri, con la coscienza di questo debito che ci accomuna tutti, è ciò che apre al perdono. E chi si sa graziato impara nella propria carne a sperare anche per gli altri, a tradurre questa speranza in gesti concreti, in opere di pacificazione, in cultura. Il Papa suggerisce alcune azioni: il condono del debito tra le Nazioni, la promozione della dignità di ogni vita umana, la costituzione di fondi per uno sviluppo sostenibile che non lasci indietro nessuno. Immagino che pochi tra noi potranno arrivare a tanto.

E tuttavia, a partire dalle relazioni verticali e orizzontali che sono la trama delle nostre vite, proviamo a chiederci: che forma concreta daremo alla speranza (in famiglia, nelle comunità, negli ambiti professionali?) Di che ascolto saremo capaci? Con quanta creatività e in che modi nuovi rimetteremo i debiti del fratello? Perché il perdono non rimanga un’esperienza intimista, ma possa mettere radici nei luoghi personali e sociali in cui il nostro tempo vive la crisi, la disperazione, lo sconforto.

Tommaso Nin

 

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