Confesso che la politica degli annunci applicata alla scuola non mi è mai piaciuta. L’annuncio, fatto di recente dal ministro dell’istruzione e del merito sulle colonne di un quotidiano, di una riforma delle Indicazioni nazionali, ha sollevato subito un vespaio: dalla politica, dal sindacato, dalle famiglie sono arrivate levate di scudi o plateali endorsement.
Ma andiamo con ordine. Roma non stabilisce più da decenni i programmi scolastici. Approva appunto delle “indicazioni”, necessariamente generiche, che poi saranno le singole scuole, nella loro autonomia, ad attuare. Il percorso che ha condotto all’elaborazione di queste nuove linee – per le quali, è bene sottolinearlo, al momento non esiste alcun documento ufficiale! – è partito dalla costituzione di una commissione ministeriale di “saggi”, che dopo decine e decine di incontri ha partorito il testo. Che cosa è accaduto? Che se della commissione faceva parte un celebre violinista, giustamente egli ha suggerito di sostenere l’insegnamento della musica già dall’infanzia. Che se della commissione faceva parte il celebre latinista, egli avrà suggerito di reintrodurre il latino già alle scuole medie. Che se della commissione faceva parte un presidente emerito dell’Accademia della Crusca egli avrà fatto notare l’importanza dello studio della grammatica per la conoscenza della lingua. Qualcun altro avrà sicuramente ricordato che, quando sui banchi di scuola ci sedeva lui (o lei), le cose si imparavano a memoria. Qualcun altro ancora che la storia patria sì che la si studiava una volta! Troppi gli italiani che non sanno più chi sia Mazzini, Montale e che cosa abbia scritto D’Annunzio!
E allora ecco le novità (sempre annunciate, s’intende): il latino torna come materia opzionale alle medie; letteratura, grammatica e classici (con la Bibbia inserita di sfuggita tra questi ultimi) già dalla prima elementare, con l’educazione musicale e quella artistica; via la geostoria dalle superiori (le Indicazioni nascono per “disegnare il cammino di bambini e adolescenti dai 3 ai 14 anni”, ma poi, si sa, nell’annuncio è facile debordare); la storia sarà approcciata come una “grande narrazione” e privata di vituperate “sovrastrutture ideologiche”.
Insomma si intende ritornare a una “scuola della regola”, dove lo studio della grammatica assumerebbe il valore simbolico di una grande palestra dell’ordine (“la grammatica è cultura della regola” dichiara il ministro). Non sono casuali al proposito le dichiarazioni del capogruppo della Lega in commissione cultura alla Camera, per il quale con queste nuove Indicazioni nazionali “c’è un ritorno alla autorevolezza della scuola, dove chi si comporta male viene sanzionato e chi non studia è bocciato”; e basta – continua lo stesso onorevole – con questa deriva progressista “che ha rovinato pedagogia e scuola negli ultimi quarant’anni [sic], dove chi non studia, occupa e spacca tutto a scuola viene tutelato e protetto”!
Certo, annunci. Che hanno scatenato dichiarazioni su dichiarazioni. Che a loro volta hanno inorgoglito il ministro che si è detto soddisfatto del dibattito generato. Ma su che cosa, chiedo io? Sugli annunci affidati ad un’intervista giornalistica? Era questo il dibattito che si voleva produrre? Certo, adesso il testo (di cui, ripeto, si parla tanto ma la cui bozza hanno visto in pochi) sarà, a quanto si dice, oggetto di un’ampia fase di ascolto e condivisione e poi diverrà decreto a marzo 2025, venendo applicato solo a partire dall’anno scolastico 2026/27.
Confesso un certo disorientamento, nel metodo, ma anche in relazione all’attuale vision sulla scuola, così come pare emergere da questo ingolfo di chiacchiere che, per inciso, nel giro di pochissimo tempo sono state superate e sepolte dal web. A quali esigenze si vuole che risponda oggi la scuola? Siamo ancora dentro quell’icona ottocentesca, poi riproposta con segni analoghi anche nel Novecento, per cui la scuola nazionale è identitaria e serve a sfornare buoni italiani? Consapevoli della forza della loro lingua, della storia, del valore del proprio patrimonio artistico e culturale, motivati nella competizione con gli altri popoli e consci di possedere una certa qual missione o superiorità? O, come io continuo ostinatamente a credere con maniere inevitabilmente retrò, la scuola è prima di tutto il luogo della formazione integrale dell’individuo, che, con spirito democratico, apre al mondo e forma al rispetto e alla responsabilità nei confronti degli altri (tutti gli altri!) e delle cose?
Sono visioni diverse, non necessariamente alternative. Ma ogni visione orienta poi gli approcci e le decisioni individuali. E qui si tratta di scegliere quali obiettivi di lungo periodo siano per noi più importanti come società. E come cattolici.
Nota a margine, per concludere. Mi chiedo quanto i membri della commissione ministeriale, tutti autorevolissimi ovviamente, conoscano l’effettiva realtà dell’attuale scuola italiana. Probabilmente ne conoscono e la giudicano a partire dai risultati che ritengono essa abbia prodotto a livello sociale e culturale. E dunque lamentano la scarsa conoscenza di questo e di quello, le lacune, le sovrastrutture ideologiche, il lassismo, la poca disciplina. Ma hanno una vaga idea di come realmente siano oggi le nostre scuole? Di come siano effettivamente i bimbi e i ragazzi di questa generazione, delle condizioni nelle quali gli operatori si trovano a lavorare, del rapporto con le famiglie, delle mille pressioni che gravano su un ambiente costantemente a rischio di burn-out? La scuola è una spugna: assorbe tutto e tutto porta dentro. Ma non è necessariamente lei la soluzione o la cura di tutti i mali che vediamo in giro.