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Far dialogare i saperi
Pubblicato su “la Vita Cattolica” nr. 37/2023
Oggi si fa un gran parlare di competenze trasversali, di contaminazione delle conoscenze e di approcci inter (o trans) disciplinari. Sembra quasi che le vecchie competenze verticali – ovvero le conoscenze chiave, tipiche di ogni ambito di studio e di lavoro – rappresentino qualcosa di superato. Ma è davvero così?
Ovviamente no. Le competenze specialistiche restano essenziali, poiché in un tempo nel quale i saperi sono sempre più parcellizzati, muoversi con competenza all’interno di un determinato settore comporta l’acquisizione di conoscenze specifiche. Tuttavia, ed è questo il punto, in un mondo sempre più complesso e incerto, tali competenze settoriali non bastano. All’approfondimento analitico serve affiancare uno sguardo ampio sui problemi, ovvero la capacità di inquadrare il tassello su cui si sta lavorando all’interno di un disegno generale. Per rubare un’immagine efficace a Jacques Maritain, padre del personalismo, potremmo dire che è importante non soltanto distinguere i diversi saperi, ma anche riunirli in unità, ovvero ritessere le conoscenze specialistiche affinché ci restituiscano un’immagine più accurata del reale.
Detta così la cosa può sembrare astratta, ma in realtà fotografa qualcosa di estremamente concreto. Prendiamo il settore informatico. È sotto gli occhi di tutti l’impatto rivoluzionario del digitale all’interno dei diversi ambiti di vita (istruzione, lavoro, salute, tempo libero, ecc…). L’ esplosione di fenomeni quali ChatGPT o Midjourney è solo l’ultimo esempio della pervasività dei nuovi strumenti algoritmici. Quotidianamente, e sempre più, affidiamo alle diverse forme di intelligenza artificiale il compito di decidere per noi; al tempo stesso, e in misura crescente, esse svolgono compiti di controllo, di profilazione e talvolta di manipolazione dei comportamenti umani. Tutto ciò genera timori e inquietudini, oltre che speranze e benefiche innovazioni. Il difficile, quindi, consiste nel capire come orientare questa rivoluzione lungo una direzione che sia umanamente desiderabile.
Ecco, fino a qualche tempo fa avremmo risposto che la cosa migliore è che ciascuno svolga il proprio lavoro al meglio, ovvero che i tecnici costruiscano strumenti efficaci ed efficienti che poi altri tecnici (politici e giuristi) avranno il compito di normare, auspicabilmente alla luce di indicazioni e valori che altri specialisti ancora avranno evidenziato. Così facendo, però, le cose non funzionano. E tante problematiche tipiche del dibattito bioetico ce l’hanno insegnato. Il diritto, infatti, arriva troppo tardi e le riflessioni sui fini, se vogliono mordere la realtà ed evitare sterili contrapposizioni muscolari, non possono essere disgiunte da quelle sui mezzi. Per questo oggi si parla di ethics by design, ovvero della necessità di incorporare i valori all’interno dei processi di progettazione e sviluppo.
L’imperativo, dunque, è anticipare i problemi, non rincorrerli (anche perché sarebbe una partita persa in partenza). E questo, ovviamente, non vale solo per l’informatica. Vale per l’economia, ad esempio. Abbiamo toccato con mano, infatti, i drammi di una concezione meramente tecno-strumentale di questa disciplina e abbiamo compreso (forse) l’importanza di ripensare i modelli di sviluppo all’interno di un discorso più ampio, che rifletta sul come ottimizzare le forme di produzione e di distribuzione della ricchezza nel rispetto di esigenze sociali, ambientali ed esistenziali. Analogo discorso, poi, potremmo fare parlando di architettura, di medicina, di promozione turistica e così via. Senza un dialogo fertile tra i saperi, senza un reciproco sostegno tra scienze umane/sociali e saperi tecnico/ingegneristici, rischiamo di perdere il controllo dell’apparato tecnologico che abbiamo creato. E questo, inutile dirlo, non possiamo permettercelo.
Ecco perché, in giorni nei quali sta riprendendo l’attività accademica, l’invito che mi sento di rivolgere agli studenti è di coltivare la curiosità per ciò che sembra essere più lontano dal loro immediato oggetto di studio. Questo, sia chiaro, non significa fare sconti a ciò che è necessario per formare un sapere esperto, ma avere il coraggio di fare di più. Abbiamo bisogno, infatti, di giovani ben allenati, capaci di trovare soluzioni innovative a problemi estremamente complessi. Per parte sua, poi, l’università deve continuare a percorrere con coraggio la sfida della contaminazione dei saperi, in un rinnovato umanesimo che sappia davvero porre l’umano – i suoi bisogni essenziali, le sue attese di bene – al centro del cambiamento in atto. Il lavoro non manca, buon anno accademico a tutti!