di Daniele Bombardi
Vicini ai terremotati
Pubblicato su “la Vita Cattolica” nr. 12/2023
Sono stato in Turchia per lavoro varie volte, sia negli anni scorsi, sia nell’ultimo mese e mezzo, a seguito dei devastanti terremoti dello scorso 6 febbraio (il primo di magnitudo 7.5 alle 4 del mattino, il secondo di magnitudo 7.8 alle 11 del mattino). Spesso mi succede, quando visito la Turchia, di trovare contemporaneamente luoghi di estrema bellezza in un paese ricco di storia, di cultura e di arte, a fianco di storie tremende, di sofferenza, di povertà, di emergenza umanitaria. E’ un destino, quello della gente di Turchia, non sempre benevolo. Se guardiamo solamente agli ultimi 20 anni: guerre e attentati, terremoti, arrivi di profughi dalla vicina Siria, crisi economiche e politiche, pandemia. Un paese sempre sotto pressione, sempre costretto a dover ripartire. Il mio lavoro, come operatore di Caritas Italiana, è da qualche anno quello di affiancare, supportare e sostenere il lavoro dei colleghi di Caritas Turchia, che cercano sempre di testimoniare la loro solidarietà concreta in mezzo a tutti questi problemi.
Ma nell’ultimo mese e mezzo visitare la Turchia e lavorare con Caritas Turchia è stato un po’ diverso dal solito. I due terremoti dello scorso 6 febbraio, che hanno colpito il sud-est del paese (oltre che il nord della vicina Siria), hanno fermato il tempo ed hanno azzerato la vita in moltissime città e villaggi. Non è stato un terremoto come gli altri, pur gravi, che si sono verificati anche in anni recenti nel paese. Questo è stato un cataclisma: l’area distrutta, nella sola Turchia, ha un diametro di 350 km. Se lo paragoniamo all’Italia, è come se da noi arrivasse un terremoto tale da distruggere tutto quello che si trova nel territorio che va da Milano a Trieste. Centinaia di chilometri in cui sono crollate città, villaggi, infrastrutture, luoghi pubblici, aziende.
La scala di questa tragedia è enorme: solo in Turchia, sono oltre 15 milioni di persone colpite dal terremoto, oltre 2 milioni quelle già sfollate, 50.000 le vittime (ad oggi secondo le stime ufficiali, ma probabilmente saranno alla fine molti di più). Una tragedia che, a vederla da vicino, come prima cosa ti provoca tantissimo dolore e tantissimo sconforto. Hai proprio l’impressione che questo terremoto non abbia raso al suolo solo le case e le vite, ma anche la speranza di potersi riprendere e piano piano ricostruire.
Lo stesso dolore e lo stesso sconforto lo provi incontrando le comunità cristiane di quelle zone. Ho visitato nei giorni scorsi una delle zone più colpite, l’Anatolia: un posto che, per la storia del cristianesimo, è cruciale. Qui ci sono le città di Tarso, di Antiochia, i luoghi di San Paolo, la casa di Maria ad Efeso. Sono luoghi di persecuzioni, di invasioni. In questa diocesi hanno perso la vita nel 2006 don Andrea Santoro e nel 2010 il Vescovo Luigi Padovese. Eppure, con fatica e con pazienza, nel corso della storia l’opera della Chiesa in Anatolia è sempre ripartita, nonostante tutto.
Il 6 febbraio scorso, nella diocesi di Anatolia, il terremoto ha però fatto crollare la Cattedrale nella città di Iskenderun, ha gravemente danneggiato il Vicariato e la sua sede, ha fatto crollare varie chiese nel territorio diocesano. Ad Antiochia, ad esempio, il parroco ha provato a restare qualche giorno a vivere in quello che rimaneva della sua parrocchia distrutta, ma dopo il terzo terremoto (la scossa di assestamento del 20 febbraio, magnitudo 6.3 – per fare un paragone, il terremoto di Amatrice è stato di magnitudo 6.0) anche lui non ce l’ha più fatta ed ha dovuto abbandonare Antiochia, perché ormai tutto era ridotto in macerie.
La sfida principale di oggi, dunque, non è solo quella di aiutare materialmente e psicologicamente le persone rimaste senza casa, senza un lavoro, senza un paese dove abitare. La sfida vera è quella di salvaguardare prima di tutto la speranza.
La Chiesa italiana tutta, in questi mesi, vuole quindi dimostrare di essere “sorella” ed “amica”, condividendo il dolore e la fatica di questi mesi con la gente della Turchia. Ma soprattutto vuole testimoniare quella attenzione e quella solidarietà, che sono l’unico ingrediente per tenere accesa la flebile fiammella della speranza nel futuro: “non siete soli” è il vero messaggio che vuole accompagnare la nostra azione. La colletta del 26 marzo non quindi è semplicemente “una raccolta fondi”, ma è molto di più: è il modo in cui la Chiesa italiana fa capire alla Chiesa dell’Anatolia che anche questa volta, nonostante tutto, ricostruire, ripartire, risorgere si può.