di Anna Zenarolla
Il lavoro impoverito.
Non passa giorno senza che i media parlino di imprese che chiudono e di famiglie che non ce la fanno a pagare le bollette, col rischio di lasciare nell’indifferenza o di allarmare chi li ascolta.
Così, la presentazione del ventunesimo Rapporto su povertà ed esclusione sociale di Caritas italiana e la Giornata mondiale contro la povertà dello scorso 17 ottobre potrebbero essere passate inosservate. Ma alla povertà non ci si può abituare, lasciandosi vincere dall’indifferenza o dalla paura. La povertà riguarda ciascuno e non sforzarsi di affrontarla, ognuno per la propria parte, indebolisce tutti. Ce lo ricorda appunto il Rapporto della Caritas che già dal titolo, “L’anello debole”, richiama il nostro essere legati gli uni agli altri, come gli anelli di una catena, così che l’allentarsi di uno mette l’intera catena a rischio di spezzarsi. E l’indebolimento della catena umana del nostro Paese è reso evidente dal fatto che questi due eventi si collocano in un momento in cui l’Istat mostra che nel 2021 poco più di un quarto della popolazione (25,4%) è a rischio di povertà o esclusione sociale, un dato sostanzialmente stabile rispetto all’anno precedente (25,3%) e al 2019 (25,6%).
Questa continuità nelle condizioni di povertà la registrano anche i centri di ascolto/servizi in rete della Caritas che nel 2021 hanno visto aumentare non solo i nuovi poveri, cresciuti del 7,7% rispetto al 2020, ma anche quelli che si trovano in condizione di povertà da 1 o 2 anni. Essi passano dal 17,7% del 2020 al 22,1% del 2021.
Si tratta di uno degli “anelli deboli” della catena, rappresentato dalle persone che, con lungimiranza lo scorso anno il Rapporto Caritas ipotizzava si sarebbero potute trovare in difficoltà nell’andare “oltre l’ostacolo”, ossia nel superare le conseguenze della pandemia o le situazioni di fragilità precedenti la pandemia e da questa enfatizzate. Prima fra tutte la fragilità del lavoro che troppo spesso offre un salario così basso da lasciare i lavoratori in condizione di povertà (working poor) oppure risulta inadeguato rispetto ai bisogni dei nucleo familiari numerosi, di quelli con un unico percettore di reddito o con un monogenitore per lo più donna (in-work-poverty).
Il lavoro, pur rappresentando il principale strumento di emancipazione dal bisogno, da solo non basta a far uscire dalla povertà. Servono anche misure di sostegno al reddito e servizi che favoriscano soprattutto la conciliazione tra lavoro remunerato e responsabilità familiari, l’istruzione e la formazione di bambini e ragazzi. Il carattere famigliare della povertà che contraddistingue il nostro Paese, infatti, fa sì che questa si tramandi di padre in figlio.
Lo conferma anche la prima indagine nazionale sulla povertà ereditaria e intergenerazionale svolta da Caritas italiana e presentata nel citato Rapporto. Essa mostra che quasi sei persone su dieci che chiedono aiuto alla Caritas vivono una condizione di precarietà economica in continuità con quella della famiglia di origine. Tra gli “anelli deboli” della catena pertanto ci sono anche i bambini e i ragazzi delle famiglie povere. A loro le basse condizioni di reddito, ricchezza e istruzione dei genitori offrono meno opportunità di salire la scala sociale, così nel 28,9% dei casi rimangono nella stessa posizione sociale dei genitori. La povertà sperimentata nell’infanzia è predittiva di quella adulta.
Allo stesso modo però, come dimostrato dal premio Nobel per l’economia Heckman, ogni investimento in termini di istruzione, formazione, reddito, nutrizione, salute offerto a un bambino genera un beneficio che dura per tutta la vita. In questo momento, le opportunità per fare questo investimento ci sono, dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, al Piano Nazionale di Azione Infanzia e Adolescenza, al Piano Sociale dei Servizi e degli Interventi 2021-2023, alla Child Guarantee Europea.
A noi adulti la responsabilità di farle diventare uno strumento di equità che aiuti a colmare la condizione di svantaggio da cui partono tanti bambini e ragazzi.