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L'editoriale

L’editoriale della settimana

di

Valerio Marchi

Ancora e sempre armi
Pubblicato su “la Vita Cattolica” nr. 41/2023

Se Alfred Nobel, inventore della dinamite, definito “il mercante di morte”, si convertì al pacifismo e destinò gran parte del suo enorme patrimonio all’istituzione del Premio che tutti conosciamo, lo si deve soprattutto all’influenza esercitata su di lui da Bertha von Suttner, baronessa praghese cresciuta nella Vienna asburgica. E fu proprio Bertha la prima donna insignita del Nobel per la Pace, nel 1905. Diceva: «La pace è il più grande dei benefici, o meglio l’assenza della maggiore fra le sciagure, l’unica condizione che permetta agli interessi della nazione di prosperare», e ancora: «Il più forte di tutti gli istinti, l’istinto dell’autoconservazione, è legittimazione del diritto di ciascuno alla propria vita, santificato dal comandamento antichissimo che dice: “Non uccidere”». La sua vita, spesa con inesauribile energia alla causa pacifista, si spense una settimana prima dello scoppio della Grande Guerra, prevedendo la quale ella aveva lanciato l’allarme: «Nessuno capisce cosa sta succedendo!». Il titolo di un suo fortunatissimo romanzo del 1889 è «Giù le armi!». Anche le sue ultime parole furono: «Giù le armi, ditelo a tutti!».

Nel dopoguerra, e per la precisione nel fatidico giorno del 1929 in cui crollò la Borsa di Wall Street, uscì, destinato a divenire celeberrimo, il romanzo di Ernest Hemingway “Addio alle armi”. Per il contenuto ritenuto lesivo dell’onore delle Forze Armate, la pubblicazione di quel capolavoro fu vietata nel nostro paese fino al 1945… Poi, nel 1948, introducendo un’edizione italiana, l’autore osservò che «c’è stata quasi continuamente una guerra di qualche genere»: perciò «uno scrittore deve interessarsi al continuo, prepotente, criminale, sporco delitto che è la guerra». Inoltre, egli si disse persuaso sia che le guerre vengono «fatte, provocate e iniziate da precise rivalità economiche e da maiali che sorgono a profittarne» sia che «tutta la gente che sorge a profittare della guerra e aiuta a provocarla dovrebbe essere fucilata il giorno stesso». Da chi? Da «rappresentanti accreditati dei leali cittadini che la combatteranno». Sono frasi assai poco “politically correct”; ma chi, al pari di Hemingway, è stato in guerra, forse le condividerà.

Quattro secoli prima Erasmo da Rotterdam, citando Vegezio e Pindaro, scrisse che «chi ama la guerra, non l’ha vista in faccia», perché «chi l’ha sperimentata prova un grande orrore se essa si avvicina al suo cuore». Purtroppo, però, oggi come sempre «per l’uomo non c’è bestia più pericolosa dell’uomo: gli animali, quando combattono, combattono con le armi che ha dato loro la natura. Noi uomini invece ci armiamo a rovina degli altri uomini di armi innaturali, escogitate da un’arte diabolica». Di conseguenza, continuava Erasmo: «Se nel mondo c’è una cosa che bisogna a tutti i costi evitare, è la guerra: non c’è iniziativa più empia e dannosa, più largamente rovinosa, più persistente, più squallida e nell’insieme più indegna di un uomo». Ogni guerra è «un omicidio collettivo, di gruppo, una forma di brigantaggio tanto più infame quanto più estesa… se il regno di Satana esiste, non può essere altro che la guerra». «Macchine infernali stanno rendendo la guerra ancora più spietata. Non c’è più nessun residuo di umanità»: si lamentava ancora così, Erasmo, nel XVI secolo, quando le «macchine infernali» erano quasi armi-giocattolo a paragone con quelle di cui disponiamo adesso.

Sinora abbiamo forgiato un progresso tecnico-scientifico incredibile, ma dal punto di vista etico restiamo indietro. È per questo che rischiamo l’autodistruzione. Ecco infatti un essere umano progredito e al tempo stesso primitivo, come espresse con lucidi versi Salvatore Quasimodo nel 1946 (l’anno prima, con le bombe su Hiroshima e Nagasaki, l’umanità aveva dimostrato di potersi autodistruggere): «Sei ancora quello della pietra e della fionda, / uomo del mio tempo… / T’ho visto: eri tu, / con la tua scienza esatta persuasa allo sterminio, / senza amore, senza Cristo. Hai ucciso ancora, / come sempre, come uccisero i padri, come uccisero / gli animali che ti videro per la prima volta. / E questo sangue odora come nel giorno / quando il fratello disse all’altro fratello: / «Andiamo ai campi…». Il richiamo a Caino e Abele, al primo fratricidio della storia, è letteralmente tragico: al di là delle forme che cambiano, la sostanza pare sempre la stessa.

Come scrisse il saggio Qohelet di biblica memoria: «Non c’è nulla di nuovo sotto il sole».

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