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di

don Loris della Pietra

A fulgure…
Pubblicato su “la Vita Cattolica” nr. 31/2023

La disastrosa situazione meteorologica in Friuli e in altre regioni del nord Italia ha richiamato a molti le usanze religiose di un tempo per scacciare la grandine o per invocare la pioggia. L’Arcivescovo nel suo messaggio alle popolazioni colpite dalle perturbazioni ha ricordato l’invocazione delle rogazioni A fulgure et tempestate, libera nos, Domine ed è viva la memoria, se non la pratica, di bruciare, al sopravvenire dei temporali, l’ulivo benedetto e, in Carnia, il mac di san Zuan.

Qualcuno potrebbe chiedersi se queste forme non siano fuori tempo, soprattutto per uomini e donne ormai adulti, consapevoli che i fenomeni atmosferici si possono spiegare scientificamente, senza dover ricorrere a ragioni di tipo religioso.

In realtà, la questione è più complessa. Da sempre l’atteggiamento della preghiera scaturisce dal senso di precarietà (non a caso i due termini condividono la stessa radice): l’uomo prega quando percepisce un vuoto e fa appello a Qualcuno più forte di lui per ottenere salvezza e superare la crisi. L’uomo che prega desidera qualcosa in ordine ai bisogni fondamentali o alle lacune della vita. Ancora prima che l’uomo maturi una concezione precisa della trascendenza e della divinità ha bisogno di pregare per “stare meglio”. In particolar modo, la religiosità popolare ha saputo storicamente intercettare i sentimenti e i timori, le ansie e le attese, senza troppa paura di cadere nella superstizione. Essa, con le use invocazioni e i suoi gesti, non scavalca i disagi e i pericoli, ma piuttosto abita le esigenze e i drammi, aiutando a trovare nuovi equilibri nella fede e nella speranza. L’orante si sente parte dell’intero universo e sa di non potersi reggere solo sulle sue gambe e per questo invoca e si affida. Neppure la liturgia è rimasta estranea a questo radicamento primordiale della preghiera nei bisogni della vita se si pensa che il Messale riporta alcune antiche orazioni da poter utilizzare in tempo di terremoto, per chiedere la pioggia e il bel tempo e contro le tempeste.

In altri termini, il cammino di fede del credente non può mettere tra parentesi ciò che riguarda il suo corpo, un corpo che sente e risente, in quanto inserito in un cosmo mai uguale a se stesso. Questa è la ragione per cui anche la tradizione cristiana ha accolto forme rituali in cui il timore per l’incontrollabile si è connesso con l’abbandono alla potenza divina. Nel racconto della tempesta placata (Mc 5,35-41) il grido dei discepoli sulla barca in balia delle onde («Maestro, non ti importa che siamo perduti?») si trasforma nella domanda timorosa e stupita insieme: «Chi è dunque costui, che anche il vento e il mare gli obbediscono?».

Ciò non significa ignorare le leggi proprie della natura o pensare che nella preghiera valga il rapporto causa-effetto per cui all’invocazione corrisponde un determinato esito. La forza della preghiera sta nel fatto di pregare, ovvero di volgersi verso Dio, riconoscendovi una potenza superiore alle deboli forze umane. Quindi la preghiera non risponde semplicemente ai bisogni ma, come affermava il filosofo Wittgenstein, apre un varco per lasciarci intuire che «il senso del mondo è fuori dal mondo», e in questo modo spinge oltre ogni possibile rassegnazione di fronte agli eventi. Il mondo non è in preda ai fatti: il senso e l’esito del mondo è oltre il mondo. In questo senso la preghiera è “trasgressione” rispetto ai dati “certi” della nostra sicurezza, peraltro già compromessa dall’epidemia e dagli eventi atmosferici, e così fa percepire la mano di Dio che accompagna la storia.

È più che legittimo, allora, pregare quando la natura manifesta tutta la sua forza distruttrice per riconoscere la signoria di Dio sul mondo, ribadire la relazione tra creatura e Creatore e consegnare fiduciosamente a Dio il peso della storia.

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