«Ci sentiamo al telefono! Si el Señor no me da la gracia del martirio». Non ha bisogno di grandi traduzioni la frase che, in spagnolo, ha pronunciato padre Francisco Armellini al termine della nostra intervista. Parole pronunciate con un grande sorriso sulle labbra, ma che lasciano intuire come questo missionario di 63 anni conosca bene cosa può significare donare la vita fino in fondo. Cosa si può rispondere? «Che il Señor ti accompagni», con uno spagnolo stentato e un “magone” sul cuore. Padre Armellini, appartenente alla Congregazione della Missione di San Vincenzo de’ Paoli, tra pochi giorni rientrerà in una terra sottoposta a un regime che lui ha definito «una dittatura». Venezuela.
Ma facciamo un passo indietro. Il cognome lascia intendere che padre Armellini abbia radici qui in Friuli. Nato nel 1962 in Venezuela, Francisco è infatti figlio di un emigrato di Faedis che nel 1948 lasciò il Friuli per trovare lavoro (e amore) in Sud America. Assieme a lui, un fratello «che ora è negli Stati Uniti, a Houston» e una sorella «venuta in Friuli tre anni fa, che ora lavora come operatrice socio-sanitaria». Il sacerdote si trova proprio a Faedis, dalla sorella, per qualche giorno di riposo. Provvidenza vuole che il periodo coincida con quello che per la Chiesa è il tempo di preghiera per i missionari martiri, che culminerà il 24 marzo. Nella comunità faedese padre Armellini celebra la Messa serale e, d’accordo con il parroco don Federico Saracino, ha raccolto alcune offerte da portare nelle sue missioni. Al plurale, perché padre Armellini rientra sì in Venezuela, ma il suo cuore è diviso con un’altra terra a suo tempo martoriata, il Mozambico.
Il Mozambico dopo la guerra
Nel grande paese africano affacciato sull’oceano Indiano padre Armellini ha trascorso due periodi a partire dal 1993, anno successivo alla sanguinosa guerra civile che imperversava da decenni. «Bisogna ringraziare la cooperazione italiana curata dalla Comunità di Sant’Egidio per aver portato la pace in Mozambico. Nel giorno di San Francesco, 4 ottobre 1992, a Roma si è raggiunto l’accordo di pace». A distanza di oltre trent’anni, padre Armellini ricorda come «La popolazione del Mozambico è divisa in tre aree: la provincia meridionale, dove sorge la capitale Maputo, è più ricca e turistica. La zona centrale e interna è la più povera; il nord invece è molto ricco di risorse naturali, ma trovandosi al confine con la Tanzania, dove operano formazioni terroristiche, è particolarmente pericoloso. Lì è stata uccisa una suora italiana (la comboniana Maria De Coppi, uccisa a settembre 2022 durante un agguato dal quale si sono salvati due missionari di Concordia-Pordenone, ndr). La Chiesa però fiorisce, ci sono molte vocazioni. Nel percorso formativo vincenziano ci sono 65 giovani, negli ultimi otto anni abbiamo avuto 10 ordinazioni sacerdotali, di cui tre l’anno scorso».
Venezuela, «Una Chiesa voce di chi non ne ha»
Da pochi mesi, tuttavia, padre Armellini è tornato al paese d’origine. «Non volevo tornare in Venezuela. Il mio sogno – spiega – era di fare come i grandi missionari di un tempo: andare in una missione e restarci fino alla morte. Ma ai superiori bisogna obbedire». Il suo rientro in Sud America è emblematico della situazione in cui versa il suo paese, nel quale le congregazioni come la sua stanno richiamando i religiosi venezuelani in patria «perché missionari non venezuelani possono restare solo 90 giorni, poi devono rinnovare continuamente i visti per il soggiorno nel Paese. Quindi non vengono», racconta. Quando gli chiediamo della situazione civile nel suo paese, risponde con un laconico «È molto difficile. La pensione media equivale a 5 euro al mese. Le elezioni (del luglio 2024, ndr) si sono svolte in un sistema “blindato”, con pochissima possibilità di opposizione, ed è stato rieletto per il terzo mandato Nicolas Maduro. Qui la Chiesa ha un ruolo profetico – conclude – perché è perseguitata in modo simile a quanto avviene a Cuba e in Nicaragua. Non possiamo accogliere missionari dall’estero, il Governo non li accetta. Ma andiamo avanti con fiducia: siamo la voce di chi non ha voce».
Giovanni Lesa