La recente Giornata mondiale delle Comunicazioni sociali, che la Chiesa ha celebrato lo scorso 12 maggio, ci offre l’opportunità di riflettere sull’obiettivo affidatole dal Concilio Vaticano II nel decreto Inter Mirifica: «Rendere più efficace il multiforme apostolato della Chiesa con l’impiego degli strumenti di comunicazione». Sottolineiamo a matita tre termini: efficacia, apostolato, strumenti. Nelle parole del Concilio, dunque, è ben chiaro che gli strumenti di informazione e comunicazione non sono fini a se stessi e sono preceduti da altri elementi.
Per avviare la riflessione, come saggiamente suggerisce Papa Francesco in Evangelii Gaudium, è necessario partire dal presupposto che «la realtà è superiore all’idea». In questo, la realtà ci presenta due dati.
Il primo ci viene dall’ultimo rapporto del Censis sulla comunicazione, pubblicato lo scorso marzo e riferito al 2023, che prende le mosse – al contrario del Concilio – dagli strumenti della comunicazione. Il Censis tratteggia un Bel Paese ancora ben ancorato ai media tradizionali, TV e radio su tutti (utilizzate rispettivamente dal 95,9% e dal 78,9% della popolazione), oltre all’utilizzo pressoché totale dello smartphone (88,2%), di internet (89%) e dei social media (82%). Insomma, quattro italiani su cinque frequentano i social media e lo fanno per lo più da smartphone. Quasi tutti guardano la TV e ascoltano la radio, mentre solo uno su cinque (22%) sfoglia un quotidiano. Resistono, insomma, gli strumenti che negli ultimi 15 anni sono stati capaci di adattarsi al digitale. In aggiunta, l’annuale ricerca di We Are Social afferma che ogni giorno ciascun italiano trascorre on-line 5 ore e 49 minuti (un quarto dell’intera giornata!), di cui 1 ora e 48 minuti sui social media. A ben pensarci, è un’enormità.
Da questo primo dato di realtà ne procede un secondo, di matrice prettamente ecclesiale. Si tratta di constatare un movimento crescente, letteralmente “esploso” nella pandemia, di persone che usano gli strumenti digitali per diffondere contenuti a tema cattolico, operando spesso a titolo personale. La Santa Sede sta cercando di mettere in rete (si perdoni il gioco di parole) queste persone, cogliendo l’occasione del recente Sinodo sulla sinodalità per creare comunità di “missionari digitali” in diversi paesi del mondo. Nella community italiana figurano, tra gli altri, i volti noti di don Alberto Ravagnani, Paolo Curtaz, Rosy Russo, don Dino Pirri, Fabio Bolzetta, la disegnatrice Alumera, il vignettista don Giovanni Berti (in arte “Gioba”) e tanti altri. Tra le iniziative più recenti, vanno citate: il “Sinodo digitale” (che con il progetto “La Chiesa ti ascolta” è stato capace di raccogliere circa 60.000 questionari in tutto il mondo alla vigilia del Sinodo dello scorso novembre), una Via Crucis digitale celebrata la scorsa Quaresima e il recentissimo “World meeting on human fraternity” conclusosi domenica 12 maggio, in cui uno tavoli di lavoro era dedicato al tema “Social media. Rete come fraternità”. Il prodotto più rilevante di questo processo sinodale è stato l’apertura di una riflessione sull’ambiente digitale e i suoi “missionari”, confluita in uno dei 20 capitoli della relazione di sintesi conclusiva.
Tutto questo ci dice che nella Chiesa ci sono tutti i presupposti affinché il movimento cresca in quantità e qualità. Gli strumenti (una delle tre parole tratte dal Concilio Vaticano II) ci sono e sono usati con competenza. Resta tuttavia aperta la questione dell’effettivo impatto di tale movimento sull’opinione pubblica, per giunta in una società – Censis docet – quasi totalmente mediatizzata e soggetta al fenomeno delle “bolle”, in cui gruppi di persone interagiscono in modo chiuso tra loro. La giusta enfasi sugli strumenti (i social media, i podcast, i video, ecc.) rischia di mettere in secondo piano il tema della testimonianza cristiana on-line, che riguarda tutti ed è quindi molto più efficace (altra parola del Concilio), per la quale non è necessario essere parte di alcuna community di missionari digitali. In altri termini, inondare social, chat e canali audio-video con contenuti cattolici è cosa buona e giusta, ma non è necessariamente un nostro dovere e sicuramente non è ancora fonte di salvezza. La rete di missionari digitali serve nella misura in cui “contagia” le persone che incontra on-line di bellezza e di desiderio di testimoniare la speranza cristiana con i propri commenti, apprezzamenti, foto e video, vedendo in chi sta dall’altra parte del display un prossimo da rispettare e amare. Il vero apostolato (altra parola del Concilio) è prima di tutto la testimonianza, anche on-line.
Insomma, l’atteggiamento dovrebbe essere quello che Papa Francesco ha ben identificato nel Messaggio per l’ultima Giornata mondiale delle Comunicazioni sociali, quando, parlando degli ultimi ritrovati della tecnologia ha affermato che «A seconda dell’orientamento del cuore, ogni cosa nelle mani dell’uomo diventa opportunità o pericolo». Potrebbe sembrare una considerazione banale che invece viene confermata dai Vangeli dell’Ascensione e della Pentecoste: parlando di “nuovi linguaggi”, essi sembrano rivolgersi proprio a chi, cristiano, sta su Instagram, “scrolla” Facebook o commenta video su YouTube. Una Pentecoste digitale: è ciò che ciascuno, influencer o no, può mettere in atto nell’Italia in cui si vive on-line un’ora su quattro.
Giovanni Lesa
Direttore Ufficio diocesano per la Pastorale delle Comunicazioni sociali