Nella città che mi ha visto giovane, una fila interminabile di piccoli negozi occupava. quasi senza interruzione, il piano terra degli edifici del centro. Stretti l’uno all’altro e diversi tra loro solo per le cose esposte in vetrina e per gli odori che, dalle porte sempre aperte, si diffondevano sul marciapiede, erano mercerie, negozi di generi alimentari (li chiamavamo ancora coloniali), empori di stoffe e drogherie, negozi di cornici, di lane e di cappotti, di scarpe e di orologi, di radio, di formaggi, di macchine per scrivere… Al primo piano – e per salire si percorreva dignitose scale – trovavano luogo uffici di compagnie commerciali e assicurative, studi di avvocati, di notai e, seppure più raramente, ambulatori di qualche medico o dentista. Ancora più su, nei piani alti, e proprio fino al tetto, c’erano solo abitazioni, piccole e grandi, povere e meno povere, con camere da letto, cucine e tinelli nei quali, spesso, senza perdere d’occhio la minestra, le mamme e le zie diventavano sarte e bustaie, ricamatrici e camiciaie e, in quelle stanze, era tutto un mettere in prova, imbastire, inamidare e stirare, tra sbuffi di vapore e animati chiacchiericci, e questo continuo lavorio diventava frenetico nei giorni di vigilia quando l’ansia cresceva per le clienti che volevano sempre “screare” la nuova veste nel giorno della festa.
Erano gli anni in cui, però, quella città, perfetta come un organismo vivente e capace di ospitare, nello stesso recinto, tutte le funzioni necessarie al vivere del gruppo, incominciava a scricchiolare e, nonostante la sua formula fosse collaudata in secoli di esperienze, l’ingordigia e l’aggressività di un nuovo modo di fare commercio (più ammaliato dalla crescita esponenziale del profitto che dall’antica missione di progresso) e l’accondiscendenza degli urbanisti che, con supponente cinismo, sostenevano la necessità di dividere la città in comparti tra loro diversi per funzione, avevano dato la stura a quel processo che, prevedendo l’espulsione delle abitazioni e il loro trasferimento in altri luoghi, avrebbe inferto un colpo mortale al centro cittadino e al suo originale funzionamento.
Su questo argomento, nel 1993, ero solito urlare il mio dissenso ed elencare le mie preoccupazioni dalla “finestra” settimanale che tenevo su Il Gazzettino del Friuli e dalle mie colonne denunciavo il fatto che i piccoli negozi stavano sparendo a vantaggio di negozi più grandi, spesso appartenenti a catene commerciali nazionali o addirittura straniere, e che questi grandi negozi invadevano anche i piani alti degli edifici espellendo i pochi uffici rimasti e, soprattutto, espellendo quasi del tutto le abitazioni e, ancora, che questi grandi negozi stavano trasformando il centro della città in un centro emporiale e basta, in una sorta di centro commerciale mostruoso e infinito, fatto di ininterrotti showroom ma privo di cucine, di camere da letto e di tinelli e privo anche di mercerie, di drogherie, di ferramente per non parlare delle sarte e delle camiciaie.
Oggi, trent’anni dopo (chissà, poi, se sono pochi o tanti), la situazione è senz’altro peggiorata. L’assedio messo in atto dai numerosi centri commerciali costruiti nell’hinterland ha determinato la resa incondizionata di molti negozi del centro, e proprio il centro, costretto a rinunciare alla possibilità di diventare capitale emporiale di un territorio sovraurbano e già privo della gran parte delle abitazioni e, ulteriormente impoverito a causa della contrazione delle attività professionali, è stato depredato anche delle principali attività commerciali.
E così, in una malinconica sera di questo strambo mese di marzo, ho voluto percorrere a piedi quell’asse stradale che spacca la città e il suo centro e che, iniziando da via Aquileia e procedendo verso nord lungo via Vittorio Veneto, piazza Libertà, via Mercatovecchio, riva Bartolini e via Gemona, raggiunge piazzale Osoppo. La passeggiata ha acuito la mia malinconia perché ho contato 48 negozi chiusi, alcuni dei quali già da molti mesi. Considerato poi che il tratto di strada da me percorso è certamente rappresentativo per il commercio della città e considerato anche che, nelle strade adiacenti, si possono contare più di 200 negozi chiusi, credo di poter dire che la situazione è gravissima e che lo è ancor di più perché i rimedi possibili sono di difficile attuazione, soprattutto se in assenza di un deciso intervento pubblico. I rimedi, infatti, che potrebbero riguardare la riduzione degli affitti, agevolazioni fiscali e riduzione delle tasse comunali, il sostegno per la costituzione di aggregazioni di negozi appartenenti a diverse categorie merceologiche, l’incentivo ad individuare prodotti altamente specializzati, il freno all’insediamento di nuovi centri commerciali e all’ampliamento di quelli esistenti, il riuso in maniera abitativa dei piani alti degli edifici e chissà quante altre cose ancora, dovrebbero, in ogni caso, rientrare in un programma di coordinamento esteso a tutto il centro della città.
Anche se credo che nulla sia irreversibile, sono davvero molto preoccupato per la situazione in cui versa la nostra città e per le sue vetrine spente, e non mi capacito del perché, pur nel generale mugugno dei cittadini, pochi politici e ancor meno tecnici di settore e (ahimè) colleghi architetti, si interessino della cosa.
Una unica luce. Quella del Comune di Udine, che di recente, ha annunciato la nomina del nuovo “manager del commercio” per la città, che avrà il compito di far diventare il distretto del commercio di Udine un “polo di riferimento non solo cittadino, ma a livello provinciale e regionale”. Ci auguriamo che possa essere veramente così.
Paolo Coretti, architetto