Tra le attività che svolgo come cappellano una delle più significative è quella dei colloqui con i detenuti. Si deve avere un po’ di pazienza, attendendo che i ragazzi vengano chiamati dalle varie sezioni, ma ho imparato che queste attese sono in realtà momenti altrettanto importanti in cui senza il cellulare tra le mani (finalmente!) si può scambiare qualche parola con gli agenti presenti, con le educatrici e gli psicologi di turno in quel pomeriggio. Inoltre è anche occasione per riflettere sia sul colloquio appena fatto o su chi sta arrivando, ripercorrendo la sua storia spesso complessa e impegnativa.
Un venerdì pomeriggio, giorno che dedico ai colloqui, attendo un ragazzo che ho fatto chiamare e questi, invece di arrivare dalla sezione, proviene direttamente dalla zona preposta per l’incontro con i familiari e i conoscenti. La prima cosa che noto è che ha in mano una bottiglia d’acqua e dei bicchieri di plastica. Ci sediamo nella saletta e iniziamo a parlare come abbiamo fatto molte altre volte. È nervoso e palesemente rattristato; l’incontro con questo parente non è andato bene: soliti discorsi, solite prevedibili frasi da entrambe le parti; incomprensioni e forse pregiudizi.
Siamo in estate e dopo un po’ che parliamo una domanda banale: «Padre vuole un po’ d’acqua?». «Sì, volentieri», dico io senza troppo pensarci. La bottiglia viene aperta come nuova e dopo avermi versato un bicchiere noto uno sguardo diretto da parte di questo ragazzo. «Grazie padre Lorenzo per averlo accettato; sa, avevo portato l’acqua per questo mio congiunto ma non l’ha voluta, mi ha guardato come se pensasse che io volessi avvelenarlo quando gliel’ho offerta…». Era commosso, non esagero.
Nei confronti dei detenuti a volte noi abbiamo dei pregiudizi evidenti e socialmente condivisi, altre volte molto sottili e quasi nascosti; associamo la detenzione ad una sorta di separazione tra “noi” e “loro” immaginando che ogni gesto abbia in ogni caso sempre un doppio fine. Molto semplicemente così non è, non per tutti. Compito e impegno di chi opera o lavora in una struttura detentiva è attenersi alla realtà dei fatti e delle storie personali, anche quando sono difficili e rischiano di far scattare il pregiudizio. Questo ragazzo, nonostante le sue difficoltà e responsabilità, ha solo avuto la delicatezza di pensare che chi lo veniva a trovare potesse aver sete. «Non sa il dono che mi ha fatto nell’accettare questo bicchiere d’acqua», mi ha detto alla fine del colloquio. Ma io credo che il dono sia quello che ho ricevuto io, riflettendo su quanto ci dice e chiede Gesù nel Vangelo, tra l’altro proprio a proposito dell’offrire l’acqua.
p. Lorenzo Durandetto
cappellano
Casa Circondariale di Udine